Eccidio di Kindu: la strage dimenticata

C’era da aspettarselo: nessuna tra le testate nazionali più autorevoli ha voluto ricordare ieri il cinquantaseiesimo anniversario dell’eccidio di Kindu, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, una delle pagine più tristi della storia italiana del secondo dopoguerra.

Ci riferiamo ovviamente al massacro condotto da circa trecento soldati dell’esercito regolare congolese, capeggiati dal colonnello Pakassa, ai danni di tredici nostri aviatori che si trovavano sul suolo africano a nome dell’ONU, nell’ambito della missione di pace, voluta soprattutto dal segretario generale delle Nazioni Unite Deg Hammarskjold, al fine di monitorare l’incandescente escalation della guerra civile scoppiata l’anno prima.

Invece, nella giornata che dovrebbe costituire un rispettoso silenzio e ricordo di due grandi tragedie di cui l’Esercito Italiano è stato tristemente vittima, questa e quella di Nassyria in Iraq del 2003 (su cui qualche riga sui giornali si è spenta, ma in modo quasi forzato), i media hanno optato per l’oblio, trasformando questa giornata della memoria, in una “giornata degli smemorati”.

Proveremo allora noi, in questa sede, a ripercorrere le principali tappe della sanguinosa guerra civile, soprattutto quelle antecedenti all’eccidio, per mostrare la drammatica situazione del paese africano, ambita preda delle superpotenze della Guerra Fredda per rafforzare il proprio prestigio geopolitico.

Siamo nel 1960. Il Belgio, per evitare lo scoppio di una sanguinosa guerra di liberazione tra le proprie forze armate e le popolazioni locali, reclamanti l’indipendenza, decide a malincuore di rinunciare alla sua ricca colonia, il Congo, un tempo territorio personale del re Leopoldo II, le cui milizie si macchiarono di orrendi crimini contro le popolazioni autoctone alla fine del secolo XIX: un altro paese africano si dichiarava indipendente nell’ambito del processo di decolonizzazione.

Lo stesso anno, nel mese di maggio, vengono indette le prime elezioni libere nella storia del paese: tra i diversi movimenti partecipanti spiccano l’MNC di Lumumba, di stampo nazionalista, e il PSA di Gizenga, filosocialista. A vincere sarà il primo, con una maggioranza relativa che lo costringerà ad allearsi al PSA per formare un governo, che vedrà al vertice Lumumba e Gizenga suo vice. Poco tempo dopo, il parlamento eleggerà Joseph Kasa-Vubu presidente della Repubblica.

Le elezioni democratiche non costituiranno, tuttavia, l’inizio di un periodo di pace e prosperità per il Congo; anzi, i problemi saranno dietro l’angolo. Nonostante si fosse trovato un compromesso tra le due maggiori forze politiche, le divergenze ideologiche erano enormi; nonché la ragione di molte incomprensioni tra i ministri, anche su temi delicati, come la gestione del lento smantellamento del vecchio apparato militare, che contava ancora numerosi elementi belgi tra gli ufficiali e i sottufficiali.

Lumumba e Gizenga, spinti dal desiderio di ottenere il controllo assoluto dell’esecutivo, chiesero l’aiuto delle superpotenze dell’epoca: il primo, appoggiato anche dal presidente della Repubblica Kasa-Vubu, agli Stati Uniti e al blocco occidentale; il secondo, all’Unione Sovietica e i suoi alleati. La rottura fu inevitabile, il che comportò il sorgere di nuove problematiche: l’esercito si spaccò tra lealisti di Lumumba da una parte e di Gizenga dall’altra; nel mentre due regioni meridionali assai ricche di diamanti, il Sud Kasai e il Katanga, rivendicarono l’indipendenza approfittando della crisi politica.

I quattro schieramenti cominciarono a fronteggiarsi davvero nel 1961, ricorrendo all’uso delle rispettive forze armate, segnando ufficialmente lo scoppio della guerra civile. Il risultato fu la frammentazione del territorio nazionale in quattro parti: l’ovest con la capitale Léopoldville, sotto il controllo dei governativi; l’est nelle mani del PSA, che nel frattempo proclamerà Stanleyville nuova capitale; la regione del Sud Kasai, e quella del Katanga di Moise Ciombe, uno dei leader della resistenza anti-belga degli anni cinquanta, che poteva contare al proprio servizio numerosi mercenari bianchi degli eserciti europei.

L’ONU decise dunque di adottare la Risoluzione 143 per intervenire e porre fine al conflitto, a favore del filo-occidentale Lumumba. I paesi partecipanti alla “Missione di pace” diedero il proprio supporto sia in campo militare che per l’assistenza medica.

Eccoci ora all’11 novembre 1961: due equipaggi della Quarantaseiesima Aerobrigata di stanza a Pisa, che pochi giorni più tardi avrebbero terminato la loro missione e sarebbero rientrati in patria, atterrano a Léopoldville per fornire assistenza ad una guarnigione malese dell’ONU.

Nel frattempo, i soldati dell’esercito regolare congolese, vedendo atterrare gli italiani e scambiandoli per milizie mercenarie del Katanga, decidono di organizzare un blitz e catturare gli aviatori. Un gruppo di circa cento uomini armati si reca all’aeroporto militare e cattura i presunti nemici; uno di loro, il tenente medico ventinovenne Francesco Paolo Remotti, muore tentando la fuga.

Gli altri dodici militari vengono rinchiusi nel carcere della città, senza che i malesi riescano a chiarire l’equivoco con il colonnello Pakassa, a capo della spedizione. Al contrario, sarà proprio questi a ordinare ai propri uomini di trucidare a colpi di mitragliatrice i prigionieri l’indomani.

Dopo i tragici fatti bisognerà aspettare altri quattro anni per giungere alla fine del conflitto, segnato dall’ascesa del generale filo-governativo Mobutu Sese Seko, prima alla guida dell’esercito, dove intensificherà la repressione di tutti gli avversari, e poi al governo, eletto nelle seconde elezioni della storia del paese, nel 1965.

Mobutu regnerà da despota il Congo, nel 1971 ribattezzato in Zaire, fino alla sua morte nel 1997. Oggi il Congo sembra aver voltato pagina, rafforzando sempre più il proprio regime democratico, seppur tra numerose difficoltà. La guerra civile, quella fredda, Lumumba e Mobutu sembrano far parte di un oscuro passato, chiuso a chiave in uno scantinato buio: lo stesso in cui le nostre istituzioni, i media e la società civile in generale hanno confinato il ricordo dei 13 aviatori, uccidendoli così una seconda volta.

(Di Alessandro Giuliano)