Il conflitto siriano: una partita (anche) fra giocatori esterni (parte III)

IL RUOLO DELLA RUSSIA

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L’interesse russo nel conflitto siriano ha ragioni geostrategiche: la Siria di Bashar al-Assad non solo è un alleato di vecchia data, ma rappresenta anche la possibilità russa di mantenere una flotta nel Mediterraneo senza dover attraversare costantemente il Mar Nero e gli stretti controllati dalla Turchia.

In particolare, la Russia dispone di ben tre basi militari sul territorio siriano: la base navale di Tartus, presente fin dai tempi dell’Unione Sovietica; la base aerea di Humaymim, di recentissimo utilizzo; e la stazione d’ascolto di Lataqia. Oltre alla presenza nel Mediterraneo la Russia può, attraverso il proprio coinvolgimento nel conflitto siriano, avere maggiore voce in capitolo all’interno di un’area che, fino a pochi fa, era sotto la quasi totale egemonia occidentale, con la sola eccezione dell’Iran.
Le operazioni condotte dalla Russia prevedono il supporto aereo per l’Esercito Arabo Siriano principalmente contro le postazioni ribelli e jihadiste, mentre gli scontri diretti con lo Stato Islamico avvengono principalmente in zone strategicamente rilevanti. La ragione è semplice: la prima minaccia per Assad non è il Daesh in sé, ma la ribellione, in quanto interessata ad averne la testa anche in ragione del supporto dei paesi NATO e delle Monarchie del Golfo, mentre il sedicente Stato Islamico rappresenta, per Assad, un nemico secondario (ma pur sempre un nemico) che deve essere combattuto ma che è schiacciato anche su altri fronti: quello settentrionale, dove combatte contro i curdi del Rojava, e quello orientale, dove si scontra con i Peshmerga e l’esercito iracheno. Sebbene contro lo Stato Islamico sia schierata anche la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, che supporta l’esercito iracheno allo stesso modo di quanto fa la Russia con quello siriano, è capitato che la stessa coalizione colpisse l’Esercito Arabo Siriano a Deir el-Zor, centro petrolifero controllato dai governativi, favorendo l’avanzata dell’ISIS. Non sarebbe inoltre la prima volta che la coalizione colpisce le truppe di Assad e, purtroppo, nemmeno l’ultima.

Il lancio dei missili Tomahawk ordinato dal Presidente Trump avrebbe favorito l’avanzata dei terroristi, mentre il supporto aereo russo, per quanto localizzato, li ha generalmente respinti. Questo ha consentito alla Russia di fregiarsi del titolo di baluardo contro il terrorismo, insieme alle truppe governative, utile da spendere soprattutto in politica interna. La Russia ha infine un interesse di fondamentale sicurezza: fare in modo che la regione sia stabile e cessi di essere una culla per il terrorismo internazionale. Anche la Russia, come la Siria e l’Iraq, combatte costantemente contro gruppi jihadisti domestici diffusi soprattutto nel Caucaso settentrionale, il cosiddetto Emirato del Caucaso. Dalla Russia e il resto della Comunità degli Stati Indipendenti, inoltre, provengono circa 10.000 foreign fighters, ed è nell’interesse della sicurezza nazionale che questi non tornino a combattere nel territorio della Federazione.

Sarebbe ingenuo, tuttavia, non considerare che anche la Russia ha forti interessi energetici nell’area, legati principalmente alla sua fornitura di gas verso l’Europa: nel 2014, l’Unione Europea importava ben 119 miliardi di metri cubi di gas naturale proprio dalla Federazione Russa, pari a circa il 42% delle importazioni totali. Alcuni paesi, in particolare i più russo-critici come i paesi baltici, ne dipendono fino al 100%. La costruzione di un gasdotto che possa trasferire ingenti risorse di combustibile fossile dalle monarchie del Golfo in Europa è vista dalla Russia come fumo negli occhi, non solo per questioni economiche ma soprattutto d’influenza geopolitica. È meglio che sia un alleato strategico come l’Iran ad esportare le stesse risorse, piuttosto come competitori rivali o addirittura nemici, quali Arabia Saudita e Qatar, e che la sicurezza energetica russa nei confronti dell’Unione Europea sia pesantemente compromessa, a vantaggio, invece, sia dell’UE sia della Turchia, che avrebbe anzi modo di rafforzare la propria influenza in Europa, soprattutto nei Balcani, dove la competizione tra Bruxelles, Mosca ed Ankara si fa sempre più dura.

Come descritto in questi tre articoli, il conflitto siriano assume le dimensioni una partita a Risiko dove i variegati interessi di numerosi attori esterni si sovrappongono e si scontrano. Interessi di carattere energetico, strategico, geopolitico ed ideologico si intrecciano in quella che è stata definita, con dubbio successo, la guerra dei trent’anni del Medio Oriente. Le differenze con i conflitti di religione che dilaniarono l’Europa moderna e che sfociarono nel sistema vestfaliano, però, sono numerose e, in realtà, più che per il richiamo a fedi religiose, tutti (o quasi) gli attori in campo e fuori campo sembrano seguire una logica più affine alla raison d’Etat. Certo questo porta a molte contraddizioni, soprattutto per quanto riguarda l’Europa: se è comprensibile come il supporto alle milizie ribelli e ad un cambio di regime possa portare ad una maggiore sicurezza energetica nei confronti della Russia – ma non ad una totale liberazione dalla sua influenza, in quanto le infrastrutture d’epoca sovietica presenti nell’Europa orientale non verranno certo sostituite, tantomeno il flusso di combustibile – risulta tuttavia difficile riuscire a capire come questa strategia venga favorita alla crescita del radicalismo islamico e degli attacchi terroristici entro i confini dell’Unione Europea, insieme alla crisi migratoria che sta distruggendo l’Unione stessa sia all’interno dei suoi Stati membri, con una situazione aggravata dal suo sovrapporsi alle preesistenti crisi economica e frattura Nord/Sud, sia sul fronte Est/Ovest, che l’ha portata a firmare il discutibile accordo sui rifugiati con la Turchia.

Ma l’Unione Europa, in realtà, non è nemmeno un vero giocatore in questo contesto, poiché la voce dell’Occidente è in realtà quella di Washington, alla quale Bruxelles (quartier generale sia di UE e NATO) si accoda. Gli Stati Uniti, come mostrato, hanno interessi mirati al rafforzamento dei propri alleati nella regione (Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Israele) e all’indebolimento dei nemici di entrambi, cioè Iran e Russia, la cui alleanza passa anche per la questione siriana. La conflittualità con Teheran è evidente sotto moltissimi aspetti, dalle difficoltà legate alla questione del nucleare iraniano alla guerra in Yemen, mentre quelle con Mosca hanno radici storiche e geopolitiche radicate nella Guerra Fredda, persistenti fino ad oggi, forse, anche a causa del conflitto geopolitico fra Terra e Mare teorizzato da Carl Schmitt, che vedono nelle crisi ucraina e, parzialmente, siriana una loro escalation.
In seguito all’intervento statunitense dei primi di aprile, dopo il quale si temeva un intervento stile Iraq anche sul suolo siriano, sembra che le acque siano tornate ad essere un po’ meno turbolente. La soluzione al conflitto siriano può essere militare solo se applicata dal fronte governativo con la sconfitta totale della ribellione, delle milizie estremiste e dello Stato Islamico. Se la soluzione militare fosse invece operata dagli oppositori del regime (soprattutto attraverso un intervento statunitense), il risultato sarebbe una nuova Libia, catapultata in un contesto di caos assoluto senza nessuna forma di tutela per i civili, che avrebbe ripercussioni negative su tutta l’area circostante e, in particolare, l’Europa. L’alternativa alla soluzione militare, sebbene sia ancora più difficile da ottenere, esiste, ed è quella politica: il 3 e 4 maggio si sono tenuti ad Astana, capitale del Kazakistan, nuovi colloqui di pace a cui anche il Qatar ha dato il suo sostegno, che hanno seguito gli incontri di Teheran fra Russia, Turchia e Iran.

Sembrerebbe che, fra gli attori esterni, siano proprio Mosca, Ankara e Teheran a fare da padrone. Almeno fino a quando Washington non cercherà di dire la propria, avendo già dimostrato, a suon di missili, che la sua opinione non può essere ignorata.

(di Elia Bescotti)