Lo “yeti” italiano: l’Uomo Selvatico fra folklore e tradizione

Dallo yeti dell’Himalaya al bigfoot dell’America settentrionale, sono diverse e numerose le tradizioni che parlano di creature primitive, selvagge e pelose. I due citati non sono che gli esempi più famosi, ma alla lista possiamo anche aggiungere lo Yeren delle montagne cinesi e molti altri. Sebbene non siano in molti a saperlo, anche in Italia abbiamo storie e leggende che parlano del nostro “yeti”, il cosidetto Uomo Selvatico.

Chiariamoci. L’Uomo Selvatico della tradizione italiana non è però un mostro gigantesco o uno scimmione antropofago, bensì un essere umano primordiale e selvaggio, che vive isolato fra le montagne e dal corpo completamente ricoperto di pelo. Le leggende su di lui sono diffuse lungo tutto l’arco alpino e fino agli Appenini, segno che questa creatura (almeno in passato) era parte integrante del folklore dei nostri antenati. Anche nel Duomo di Milano, lungo le sue guglie, trova posto la rappresentazione dell’Uomo Selvatico.

A differenza dell’abominevole uomo delle nevi, il nostro Uomo Selvatico è un essere pacifico e schivo. Lo è almeno in quasi tutte le leggende. Vive fra i boschi e le grotte dell’alta montagna perché teme e rifugge l’uomo e la sua civiltà. Solo raramente, spinto dalla solitudine, l’Uomo Selvatico decide di scendere a valle per cercare un po’ di compagnia. Chi dovesse incontrarlo in queste situazioni può ritenersi estremamente fortunato; il selvaggio è infatti un profondo conoscitore dell’arte casearia, ed è sempre pronto a insegnare i suoi segreti alle persone che incontra sul suo cammino. Sarebbe stato proprio lui, infatti, ad aver insegnato agli uomini come produrre il burro e il formaggio.

In questo la leggenda dell’Uomo Selvatico ricorda molto da vicino quella del sumero Enkidu. Anche quest’ultimo è infatti rappresentato come un uomo primitivo ed estremamente peloso. Grande esperto di pastorizia e allevamento, sarà proprio Enkidu a insegnare ai Sumeri l’arte casearia. E proprio come l’Uomo Selvatico, anche il personaggio mesopotamico è spesso vittima degli imbrogli orditi contro di lui dagli uomini più civilizzati. Nella Valsugana, ad esempio, si racconta come il salvanel venne ubriacato con l’inganno, per rubargli i suoi segreti. Nel biellese fu invece vittima di alcuni scherzi crudeli da parte di un gruppo di ragazzi e dovette scappare. Non gli si può dar certo torto se appare timido e schivo!

Salvanel è il termine dialettale con cui l’Uomo Selvatico è conosciuto in Valsugana. In Val d’Aosta è chiamato ommo sarvadzo, mentre in Piemonte è l’om servaj. In Trentino si parla di om pelos e in provincia di Belluno di om salvàrech. Così come ci sono tanti nomi locali per indicarlo, così sono anche numerose le iscrizioni e le pitture che lo ritraggono. La più famosa di tutte è forse quella presente nell’abitato di Sacco di Cosio Valtellino, in Valtellina appunto.

Si tratta di un vecchio edificio del XV secolo, un tempo abitato da una locale famiglia di notai. La stanza principale è una tipica camera picta del periodo, dipinta con numerose decorazioni e scene religiose. Fra tutti i soggetti ne spicca uno in particolare: un uomo nudo, armato di clava e dal corpo completamente ricoperto di lunghi peli scuri. E’ il nostro Uomo Selvatico. Dalla bocca dell’essere, come fosse un moderno fumetto, escono alcune parole pronunciate in prima persona:

«Ego sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura»

Nella camera picta si possono leggere ancora oggi i nomi degli artisti che hanno realizzato i dipinti, Simon e Battestinus. Si tratta probabilmente di due pittori appartenenti alla celebre famiglia Baschenis, famossissima soprattutto per le sue danze macabre. Il fatto che due nomi importanti avessero scelto di dipingere l’homo salvadego in una casa aristocratica è probabilmente un altro indizio di come questa creatura fosse importante e centrale nel folklore della zona. Non a caso, l’Uomo Selvatico era anche al centro di un’usanza carnevalesca diffusa in Valtellina e ora ormai scomparsa.

Durante il carnevale, due ragazzi si vestivano rispettivamente da omen del bosk (uomo del bosco) e da femena del bosk (donna del bosco) e si nascondevano all’interno di una capanna costruita apposta per l’occasione. Si vestivano di pelli di capra e pecora, a imitazione dell’Uomo Selvatico. Gli abitanti della valle fingevano poi di assaltare la capanna della coppia, bruciandola e scacciandone gli occupanti. L’uomo e la donna dei boschi veniva in seguito catturati e processati. Infine erano costretti a separarsi e a non vedersi mai più, esiliati rispettivamente sulle due sponde di un fiume. Lo scopo era quello di impedire all’Uomo Selvatico di procreare e di proseguire la sua stirpe.

Come si può capire da questa tradizione, nelle leggende alpine si possono anche trovare accenni alla Donna Selvatica. Come la sua controparte maschile, anch’essa è un essere schivo e timido, ma che a volte incontra alcuni essere umani per insegnare loro i suoi segreti. In questo caso, la Donna Selvatica sceglie alcune giovani ragazze i trucchi della filatura. Le salvarie, come sono anche chiamate, sono spesso donne bellissime e sensuali (a dispetto del pelo!); molte leggende raccontano infatti di come molti giovanotti valligiani si siano innamorati di loro.

L’Uomo Selvatico è dunque una figura fortemente radicata nella tradizione e nel folklore italiano, specialmente alpino e appenninico. Tracce della sua “presenza” si possono trovare in tantissime regioni italiane, così come anche in Germania, Austria e Svizzera. Discendente diretto del fauno mitologico, l’homo salvadego non è in definitiva che la rappresentazione dell’Altro, del soggetto incapace di vivere secondo le leggi della civiltà e che per questo ne viene deriso e scacciato. Ma l’Uomo Selvatico è anche l’archetipo stesso dell’umanità, il nostro primordiale antenato che continua a seguirci e a indirizzarci verso un rapporto più intimo e originario con la natura.

P.S. Gli “avvistamenti” di Uomini Selvatici, in Italia, si sono susseguiti fino a pochi anni fa. Fra i più famosi citiamo quello di Montoggio (Genova) del 1983 e quello di Rosta (Val di Susa) del 1982.

(di Andrea Tabacchini)