Lo strumento “bancario” dei clandestini: l’hawala

Fuggire da fame e guerra per poi approdare, dopo un viaggio estremamente pericoloso, alla sponda agognata: l’Occidente. Se anche ciò accade illegalmente, risulta difficile comprendere la ragione che spinge spesso molti immigrati irregolari a fuggire dai Cara, ossia dai Centri per richiedenti asilo.

Questi campi sono gestiti dal Ministero dell’interno e furono costituiti a seguito della riforma del diritto d’asilo, impostata da due diverse direttive della Ue; qui gli immigrati giunti in Italia, che fanno richiesta del diritto d’asilo e della protezione internazionale, sono sottoposti a cure, sfamati e accuditi. Perché così spesso ci sono immigrati che fuggono da questi centri, se si tratta di perseguitati e affamati? Forse perché, in moltissimi casi e ovviamente non sempre, la realtà è assai diversa.

Ci si imbatte, in questa ricerca, in un vetusto sistema di trasferimento di valori grandemente adoperato nei Paesi islamici: si tratta dell’hawala. Vediamo come funziona: all’estero, in una nazione africana o mediorientale, un cliente si rivolge a una sorta di “banchiere” di strada (il primo hawaladar) e gli da una somma di denaro da consegnare a un destinatario, che si trova magari all’estero.

A questo punto il primo hawaladar contatta un suo “collega” nella città straniera (tipo Milano o Roma, ad esempio) dove si trova il destinatario dei fondi. Sarà proprio lui, rivolgendosi all’hawaladar locale, che comunicherà un codice di autenticazione per ricevere i soldi: in questo modo non vi è stato nessun trasporto fisico della moneta – improbabile nei viaggi pericolosi degli immigrati -, non è stata adoperata nessuna banca per i trasferimenti e quindi non è assolutamente non tracciabile ufficialmente.

Tutto si basa su un accordo privato fra le parti, cimentato da un rigido codice d’onore col quale il primo hawaladar promette al secondo presente nella nazione occidentale, dove è giunto il beneficiario del trasferimento, a saldare il debito aggiungendo la piccolissima dose di interessi prevista (irrisoria rispetto ai costi bancari).

Generalmente gli hawaladar operanti in Europa hanno “sede” in negozi alimentari etnici o in altre attività sempre di immigrati, in ogni caso mai assimilabili al settore finanziario.

Risulta evidente unire questo sistema di “trasferimento” di fondi ai numerosissimi casi di immigrati fuggiti dai centri nei quali erano stati destinati per esser aiutati, come ad esempio quelli che erano presenti sulla nave Diciotti. Se si è impossibilitati a raggiungere l’hawaladar locale, non si potrà ricevere la quota “trasferita”; inoltre non si potrà pagare chi ha facilitato l’arrivo in Italia o la somma per i documenti falsi.

Tale fenomeno fornisce inoltre altri due dati evidenti: queste persone hanno, nel Paese dal quale emigrano, conoscenti o congiunti pronti ad aiutarli con fondi in loro possesso e hanno inoltre contatti qui per ricevere i soldi trasferiti. Tutto ciò è fondamentale da comprendere, non solo per lacerare il velo di luoghi comuni e falsificazioni col quale si è coperta da sin troppo tempo l’immigrazione di massa, ma soprattutto affinché comprendendo le meccaniche profonde sia possibile prevenire tutti i fenomeni deteriori che ne conseguono.

La National Public Radio statunitense mandò in onda, nel 2010, un servizio giornalistico nel quale si appurava che i pirati somali, celebri per la loro crudeltà, adoperavano proprio l’hawala per trasferire il denaro grondante sangue o maleodorante di droga nella capitale del Kenya, Nairobi. Con questo strumento, alimentando la corruzione endemica e approfittando delle larghe maglie dei sistemi di controllo kenioti, i pirati hanno riciclato i loro soldi in nuovi palazzi o nella realizzazione e smercio di documenti falsi per gli immigrati irregolari somali in Kenya.

Sempre nel 2010 uno fra i più importanti quotidiani indiani, The Times of India, si occupò di un caso sensazionale: a Kabul, capitale dell’Afghanistan, gli agenti locali addestrati dagli americani sequestrarono e chiusero i locali della New Ansari Exchange. Era la più grande compagnia afghana di trasferimento fondi e adoperava proprio l’hawala.

I talebani ne avrebbero usufruito ampiamente facendo fluire un fiume di danari frutto anche della vendita della droga (oppio); si parlò di cifre colossali, miliardi di dollari, e le cataste di documenti provavano trasferimenti di soldi a politici apicali dell’Afghanistan “liberato”, all’epoca sotto il governo di Hamid Karzai.

Fu proprio lui, il primo presidente afghano eletto dopo la guerra USA ai talebani, che entrò a gamba tesa nello scandalo, imponendo una revisione dei conti; nel gorgo erano intanto finiti anche suoi parenti.

(di Pietro Vinci)