Bellezza, tradizione ed eterno: intervista a Pietrangelo Buttafuoco

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Pietrangelo Buttafuoco è uno scrittore di grande sensibilità. Si può dire sia uno dei pochi che – per la sua sincera devozione alla Bellezza – sappia imprimere uno stile personalissimo a tutto ciò che scrive. La sua vita è un continuo transitare con gli occhi vigili di chi, tra le increspature della realtà, è interessato a cogliere e testimoniare una cosa soltanto: l’eterno. Quell’eterno che siamo stati abituati a percepire come distante e intangibile, ma che lui ci insegna essere più prossimo a noi di quanto comunemente pensiamo.

E.I. Nadai: Nel suo libro “Il feroce saracino” si parla della religione islamica e, attraverso una serie di spunti autobiografici, della traccia che questa religione ha lasciato nella sua vita; secondo quale percorso filosofico, letterario e religioso si è avvicinato ad essa?
P. Buttafuoco: Se è possibile, preferirei non parlare di questioni personali in rapporto alla religione. Ho scritto dei libri in cui ne parlo.

E.I. Nadai: D’accordo! Un capitolo di questo libro lo dedica alla figura del grande filosofo – per quanto sia riduttiva questa attribuzione – Henry Corbin; potrebbe dirci, a suo avviso, che cosa potremmo apprendere da un pensatore come Corbin?
P. Buttafuoco: L’aspetto interessante della filosofia di Corbin è la sua intuizione dell’immaginale, cioè la capacità di portare l’invisibile al visibile. È qualcosa che non si riferisce soltanto alla teologia ma ha dei riflessi che sono fondamentali nell’interpretazione del linguaggio contemporaneo. È una metodologia che utilizza il presupposto metafisico per descrivere anche ciò che abbiamo dimenticato di intuire nella realtà quotidiana. Nel mio libro “I baci sono definitivi” la vita quotidiana non è dissolta nello svolgersi delle giornate, ma ho cercato di catturare dei momenti in cui si apre questo spiraglio all’eternità.

Bellezza, tradizione ed eterno: intervista a Pietrangelo Buttafuoco
Henry Corbin

E.I. Nadai: Gesù è Muhammad: quali vicinanze trova ci siano tra queste due figure che spesso vengono ritratte secondo una distanza incolmabile?
P. Buttafuoco: Non c’è nessuna distanza incolmabile. Sono due figure che, nella sequela della tradizione profetica e nella filiazione spirituale, rappresentano delle vette della storia dell’umanità per quel che riguarda la loro natura umana. Però noi sappiamo che l’Islam, per esempio, fa una distinzione ben precisa: Gesù è definito “Spirito di Dio” mentre invece sul Profeta Muhammad c’è una chiara contrazione umana, totalmente umana, tant’è vero che l’Islam riconosce uno stato spirituale a Gesù, non fosse altro per la sua diretta filiazione con Maria, che è uno dei personaggi cardine della tradizione musulmana. Mentre di Muhammad, il messaggero, culmine della Rivelazione, viene ribadita la natura umana.

E. I. Nadai: Lei pensa che il ruolo di Maria potrebbe, in una certa misura, portarci a rivalutare profondamente il nostro sguardo nei confronti della religione islamica?
P. Buttafuoco: Basterebbe che ci fosse una reciprocità, da ricercare nella conoscenza; sarebbe auspicabile che i cristiani conoscessero profondamente la cristianità, così come i musulmani dovrebbero conoscere profondamente l’Islam. Sarebbe già un passo avanti per riconoscere l’una e l’altra religione. Spesso la religione diventa mera rappresentazione confessionale e non una approfondita consapevolezza della Tradizione.

Bellezza, tradizione ed eterno: intervista a Pietrangelo Buttafuoco

E. I. Nadai: Ma c’è una qualche prospettiva sincretica in tutto ciò?
P. Buttafuoco: No, tutto il contrario del sincretismo. È la consapevolezza della Tradizione, che è una e rivolta al manifestarsi del Sacro, che non ha limiti confessionali o geografie. Anzi, rivendica la necessità di far sì che i tanti raggi di una stessa luce vivano nella pluralità. In fondo, nello stesso Corano c’è un passaggio chiave in cui si spiega che se Dio avesse voluto farci uno lo avrebbe potuto fare, invece ci ha fatti molti cosicché vi sia un gareggiare per arrivare alla meta.

E. I. Nadai: Passiamo ad una delle sue primissime pubblicazioni, “Fogli consanguinei”; qui vengono ritratti diversi personaggi, tra cui spicca il nome di Carmelo Bene. Perché ha sempre nutrito una grande passione per una figura come la sua e, soprattutto, chi è oggi Bene per gli italiani?
P. Buttafuoco: Temo che tra gli italiani il sentimento diffuso sia piuttosto scarso. Nella vena viva dell’identità italiana Bene è l’artista genio che ha saputo individuare l’essenza del Sud, “il Sud del Sud dei santi”, sapendosi ricollegare alla phoné greca, ed è colui che ha ribaltato i canoni estetici di un’italietta dell’intrattenimento da cui si è tenuto sempre alla larga per accostarsi all’eternità. È uno dei personaggi che non possono essere classificati nelle definizioni superficiali di attore, drammaturgo ecc. È stato l’inaudito in un’Italia costretta a vivere nel cortile. Di lui i posteri ne avranno la considerazione che noi oggi possiamo avere del Caravaggio: ci vuole una distanza per contenerlo.

Bellezza, tradizione ed eterno: intervista a Pietrangelo Buttafuoco
Carmelo Bene

E. I. Nadai: Quindi si può dire che il suo rapporto con l’eternità sia stato un rapporto diretto con il Sacro?
P. Buttafuoco: Sì, e comunque il teatro, nella sua essenza, è vincolato alla phoné e al Sacro. Quando quest’estate sono stato a Siracusa ad assistere al monologo su Tiresia di Andrea Camilleri – un uomo che con i suoi 93 anni sceglie di partire da Roma per andare a Siracusa e inchiodare con la sua voce 4000 persone in ascolto – nella viva presenza di Tiresia, con quella cecità che nel parlarne faceva deflagrare la voce, io ho avvertito il rito sacrissimo. Molto più di una predica di Don Ciotti.

E. I. Nadai: Ne “Il dolore pazzo dell’amore” lei scrive: “All’amore bisogna credere sempre”. Ci spiega cosa sta dietro a questa frase?
P. Buttafuoco: Ritorna ancora una volta quella mia fissazione che nello scorrere delle giornate, nell’incamminarci, nel parlare al telefono, c’è sempre una possibilità, una sorpresa, un interstizio che si affaccia all’eterno. E l’amore è il moto primo che ci fa muovere in ogni nostra azione, età e abbandono, sia esso di freddezza, malinconia, entusiasmo o dimenticanza. Come canta Battiato, tutto l’universo gli obbedisce. La stessa idea della creazione, del fiat o del “sì” alla vita è un atto d’amore.

E. I. Nadai: Qual è il suo rapporto con i libri? E con i librai, di cui spesso parla?
P. Buttafuoco: Io in questo momento sto attraversando il centro di Roma e mi rendo sempre più conto di come sia sparito dal nostro orizzonte la libreria, così come sono sparite le cabine telefoniche. Ma, malgrado siano sparite le cabine telefoniche, si chiama lo stesso. Sono sparite le librerie, ma non si legge lo stesso. È venuta meno la capacità di stare concentrati per più di tre minuti su una pagina. C’è una mutazione antropologica, un po’ come quando siamo passati al pollice prensile, determinando una evoluzione dell’umanità. Ma ora penso ci sia un arretrare su cui dobbiamo riflettere.

Bellezza, tradizione ed eterno: intervista a Pietrangelo Buttafuoco

E. I. Nadai: Lei in metro fa incontri straordinari: da Marsilio Ficino, Cyrano, Shiva, Krishna ecc.; è il suo, chiamiamolo pure, mundus imaginalis?
P. Buttafuoco: Non è il mio. È quella tecnica appresa da Corbin. E sono loro a visitarmi.

E. I. Nadai: Cosa l’ha magicamente catturata della storia di Carin Von Fock, prima moglie di Göring, tanto da dedicarle un romanzo?
P. Buttafuoco: Tutto quel materiale l’avevo recuperato al tempo in cui scrivevo “Le uova del drago” e lo avevo messo da parte. È una storia bellissima che, purtroppo, non potrà avere luce per i noti tabù della storia. Però ne sono orgogliosissimo e felice, perché credo sia una delle storie d’amore in assoluto più romantiche e delicate. A maggior ragione perché si tratta di un trafficare amoroso tra demoni. L’altra storia d’amore che sono felice di aver scritto è quella de “Il lupo e la luna”.

(di Enrico Ildebrando Nadai)

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