La storia maledetta del primo kolossal sul Titanic

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Spesso le tragedie dell’umanità diventano storie interessanti ed avvincenti che, grazie alla musa del cinema, restano per sempre immortalate nelle menti di milioni di spettatori.
Immagini e suoni in grado di coinvolgere il pubblico e farlo calare in profondità, sin dove non c’è luce e dominano i chiaroscuri di storie maledette. Cosa accade se, per misteriose fatalità, è il film stesso e non la sola storia ad essere considerato “maledetto”? Parleremo dunque del film “Titanic”, ma non della sua versione targata 1997 e diretta da James Cameron, dove il viso angelico ma dannato di DiCaprio carpisce il cuore della ricca infelice Kate Winslet.

Forse qualcuno sa che di film che trattino la tragica sorte del “sovrano delle navi” ne sono stati prodotti in un certo numero prima del ’97, ma è probabile che in pochi sappiano che il primo – in proporzioni da kolossal – a mostrare sullo schermo l’incidente e la storia del Titanic è nientemeno che un film tedesco del 1943, dunque del Terzo Reich.

Prodotto dalla Tobis Filmkunst, fu girato nel Mar Baltico adoperando il piroscafo tedesco di lusso Cap Arcona. É proprio qui che incomincia la “maledizione”: la nave tedesca, impiegata durante il tempo di pace per la tratta Amburgo-Buenos Aires, fu utilizzata dalla marina militare tedesca dal 1940. Dopo esser stata usata per il trasporto di profughi dalla Prussia orientale, la nave fu in seguito usata come strumento per far “sfollare” i prigionieri dei campi di concentramento tedeschi in Slesia (nella Germania orientale). Le SS, il 28 aprile del 1945, erano incaricate di gestire l’operazione, rinchiudere sotto coperta più di 4mila prigionieri e di portare a largo il vascello dove avrebbe dovuto essere affondato.

I “passeggeri” della Cap Arcona restarono senza acqua né viveri, racchiusi dalle pareti ferree della nave, morendo di stenti come mosche. Un’attesa dolorosa che durò qualche giorno: il 3 maggio degli aerei delle forze alleate attaccarono la nave, affondandola, portando nei fatti a compimento il piano dei tedeschi. Quasi 8mila persone morirono e dei 400 prigionieri che riuscirono a raggiungere con fatica a nuoto la costa, ne sopravvissero 200: i soldati della Wehrmacht e le SS, sulle spiagge, li decimarono.

Ma torniamo al nostro film “dannato”. Se la storia della nave “truccata” per assomigliare al Titanic è atroce, la produzione del film lo fu altrettanto. Sul set serpeggiava un clima di profondo astio e pessimismo, aizzati sia dal carattere iracondo e autoritario del primo regista Herbert Selpin spesso ubriaco sia dalle tremende notizie che giungevano dal fronte orientale: erano gli anni della Seconda guerra mondiale e le sole parole “fronte russo” riuscivano a raggelare l’animo di qualsiasi tedesco, nazista convinto oppure semplice cittadino.

Agli scontri fra gli artisti del cast, si aggiunse l‘ira del Ministro della propaganda in persona: Joseph Goebbels, informato a quanto pare dallo stesso sceneggiatore Walter Zerlett-Olfenius del “disfattismo” del regista, andò su tutte le furie. Selpin fu arrestato, seguendo la legge di guerra tedesca contro il tradimento, e incarcerato. Non servì a nulla il suo tentativo di scusarsi o perlomeno farsi capire dal dottor Goebbels: rinchiuso in una prigione della Gestapo, la polizia nazista, Selpin si suicidò impiccandosi alle sbarre della finestra.

La sua spaventosa fine, che lasciava presumere che fosse stata causata dai carcerieri, trapelò: tutta la troupe e il cast si infuriarono col delatore, lo sceneggiatore Zerlett-Olfenius, e caos e risentimento furono repressi nuovamente da Goebbels: una sola parola sul caso e il responsabile avrebbe dovuto vedersela direttamente con lui. Il film, però, proseguì la sua marcia: la regia fu consegnata nelle mani di Werner Klinger e, sebbene i bombardamenti colpivano la Germania sia prima della morte di Selpin che successivamente, le riprese negli interni degli studi cinematografici o gli effetti speciali da kolossal continuarono senza freni. Ricordiamoci che nel Maggio ’42, quando le riprese erano iniziate, in Germania a causa delle bombe sganciate di notte dagli Alleati, si contavano già in numeri esorbitanti vittime e senza casa.

Il “Titanic” nazista fu completato e, come la galea che gli schiavi portano remando e morendo di stenti, arrivò in “porto” ma – anche in questo caso – tragicamente: nel 1943 il luogo predestinato alla prima del film non esisteva più a causa delle bombe alleate quindi si decise di proiettarlo a Parigi, ancora in mano ai tedeschi. Trasmesso poco prima di Natale, ebbe risultati fiacchi: fu sempre Goebbels a decidere di vietarlo perché proiettare la storia di una catastrofe, in un clima così cupo nel bel mezzo della guerra distruttiva e scorante, non era stata una buona idea. Il film più costoso prodotto in Germania sino ad allora, fu marchiato dalla bolla del fallimento dei botteghini e fu coperto dalla lunga ombra nera della guerra e del nazismo.

Nota sicuramente luminosa, in tutte queste tenebre fatte di malumori, bombardamenti, perseguitati e morti, è lo spirito di contestazione che “Titanic” del 1943 conserva in sé, sebbene con gotta propagandistica: malgrado la pellicola più conosciuta e moderna di Cameron abbia trattato in una certa misura la realtà sociale ed economica soggiacente al peso del colosso dei Mari, il suo lontano parente tedesco era assai più crudo e pungente.

Nel 1997 si chiosò sulle ingiustizie sociali, sulla follia eretta a monumento macabro della presunzione umana di far decollare gli affari gonfiando le presunte doti di superiorità della “nave inaffondabile”, ma l’opera maledetta di Selpin, Olfenius e Klinger osò assai di più dipingendo i padroni della White Star Line, compagnia che progettò e produsse il Titanic, come sanguisughe assetate di danaro e dividendi. Immaginate se qualcosa di simile potesse mai, 21 anni fa, esser inserita in un film da dare in pasto al pubblico: fu assai più semplice far sì che il tema d’amore offuscasse tutto ciò che era intorno, rendendo i riferimenti economici generici e le scelte imprenditoriali scellerate solo di contorno.

La rivista scientifica statunitense Scientific American, mensile preclaro, dedicò 7 anni fa le sue pagine ad un’attenta disamina dei fatti precedenti e successivi alla tragedia marina del Titanic: gravi difetti in fase progettuale; l’acciaio della nave conteneva probabilmente troppe impurità che ne fiaccarono la resistenza; la scelta estemporanea di evitare la collisione frontale col “mostro” di ghiaccio fu inopinata, giacché ciò avrebbe evitato che così tanti compartimenti stagni saltassero rendendo il più lussuoso e gigantesco dei navigli una tomba d’acqua gelida; i rivetti in ferro, che punzonavano le pareti esterne, saltarono come tappi di Champagne all’urto con l’iceberg, comportando diverse falle.

Dulcis in fundo la rivista americana di divulgazione scientifica riporta che Joseph Bruce Ismay, amministratore delegato della White Star Line con una cabina di Prima classe sul Titanic, fu soccorso e salì a bordo del Carpathia inviato in aiuto ai superstiti della tragedia ma fu solo grazie all’intervento del senatore americano William Alden Smith se si riuscì a bloccare Ismay prima che ripartisse in fretta e furia per la Gran Bretagna da New York: aveva già inviato un messaggio in America, con l’ordine di attendere il suo arrivo prima che la prossima nave della sua linea prendesse il mare.

Le decisioni della borsa, il peso dell’oro e della carta dei titoli, pesano assai di più di 1518 morti sul fondo nero dell’Oceano.

(di Pietro Vinci)

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