L’Intelligenza Artificiale, tra scenari apocalittici e promesse fantascientifiche

L’Intelligenza Artificiale, tra scenari apocalittici e promesse fantascientifiche

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22 anni fa, nel 1996, per la prima volta, un computer IBM Deep Blue batté un uomo nel gioco degli scacchi. Non uno qualunque, bensì il campione mondiale Garri Casparov. Oggi, progetti e prototipi di robot e programmi informatici elaboratissimi, sono perfezionati sempre di più; la ricerca, nei laboratori di grandi corporation della robotica e di software, è incessante e gode di finanziamenti cospicui.

L’Intelligenza Artificiale, elaborando e connettendo cifre incalcolabili di dati, sta prendendo corpo in applicazioni, macchine e strumenti che rivoluzioneranno ambiti vitali e umanissimi quali la medicina, l’assitenza domestica, la guerra, la locomozione e potenzialmente quasi ogni nostra attività di corpi e cervelli organici.

Parrebbe banale e scontato dirlo, ma ciò che solo vent’anni fa non era nemmeno concepibile, se non nella fantascienza, oggi sta venendo plasmato nei centri di ricerca, da ingegneri informatici ed elettronici – novelli demiurghi – che, i più scettici e critici, definirebbero “scienziati pazzi” o “apprendisti stregoni”.

Invero, dopo anni di sperimentazioni e perfezionamenti, il tema dell’AI (Artificial Intelligence) sta ultimamente diventando materia di dibattito e approfondimento, coinvolgendo l’opinione pubblica: articoli, reportage, conferenze, dibattiti da talk show, programmi divulgativi e fiction stanno portando all’attenzione mondiale lo stato dell’arte di questa branca della scienza, con le sue inevitabili implicazioni etiche e antropologiche.

Il termine è ormai uscito dai ristretti ambienti degli addetti ai lavori e dei secchioni fanatici di tecnologia – i nerd – ed è sempre più spesso usato disinvoltamente dall’uomo della strada, che il più delle volte non sa di cosa parla. Sarà dunque opportuno definire la AI come la riproduzione artificiale tramite software e hardware, composta di algoritmi (sequenze matematiche), di attività neuronali del cervello umano. Una replica e un potenziamento dell’intelligenza umana, praticamente.

Ma già nella definizione stessa si pone un problema: può una macchina, un elaboratore elettronico, riprodurre in tutto e per tutto le attività cerebrali umane? Il nostro encefalo è un mero insieme quantitativo di miliardi di connessioni sinaptiche neuronali, replicabile in un programma informatico, oppure è un qualcosa di più, di superiore, unico e insondabile, non riducibile a una rete di dati e informazioni?

Domande che chiamano in causa i principi primi – filosofici – di senso e significato, riguardo la definizione stessa di cosa siano uomo, macchina, coscienza e conoscenza: a seconda del significato che si dà ai termini summenzionati, trovano risposte diverse. Ad esempio, il fisico e cosmologo Roger Penrose, docente a Oxford e ospite lo scorso 12 maggio a Milano per una conferenza sulla AI, ritiene il termine addirittura “Improprio”, perché nessun dispositivo “comprende” ciò che sta facendo: “la volontà richiede comprensione e questa richiede consapevolezza, cioè coscienza che le macchine non hanno”.

Il pensiero umano, cioè, va al di là di pure operazioni matematiche e computazionali, riproducibili da algoritmi, essendo in grado di comprendere il significato, la consapevolezza di sé e delle cose, cioè di pensarsi. In una parola: ha coscienza. Cosa che, fino a prova contraria, un elaboratore elettronico o un robot, per quanto complessi, non hanno.

Secondo lo scienziato inglese, il computer può certamente simulare alcune azioni del pensiero umano, ma non ciò che rende l’uomo tale: la coscienza. A meno che non si consideri la mente umana come, essa stessa, mera macchina computazionale di calcolo ed elaborazione di dati interconnessi, replicabile e “scaricabile” in download su un hardware. Senza più alcuna distinzione qualitativa tra uomo e software; tra persona umana e robot-cyborg.

E così la pensano, come riconosce Penrose, gran parte degli studiosi di AI, come ad esempio il filosofo transumanista Nick Bostrom, direttore del Future of Humanity Institute sempre ad Oxford, secondo cui, entro il 2075, una super intelligenza artificiale, dotata di autocoscienza, potrebbe eguagliare o addirittura superare l’intelligenza umana.

Ecco allora che, se si applica questa visione riduzionista e meccanicista alle estreme conseguenze e al potenzialmente raffinatissimo sviluppo dei sistemi di AI, forniti di apprendimento automatico col quale si auto-correggono e perfezionano (machine learning), si aprono scenari inquietanti. E le domande sopra poste sono destinate a diventare di stringente attualità in un prossimo futuro.

Se è vero che molte applicazioni dell’Intelligenza Artificiale fanno già parte della nostra quotidianità (come il software Siri di assistenza digitale Apple), e alcune forniranno un supporto decisivo nella medicina per malati e disabili (esoscheletri, protesi bioniche, ecc.), altri utilizzi e finalità delle stesse possono sfuggire di mano e portare a conseguenze poco desiderabili, se anziché servire le persone, saranno volti a controllarle, condizionarle (marketing) e manipolarle.

In tal senso, lo sviluppo di tecnologie avanzatissime di riconoscimento facciale, apre scenari distopici. Che sono già realtà in Cina. Nell’ex Celeste Impero, è stato recentemente implementato un sistema di AI che permette il riconoscimento istantaneo, ubiquo e onnipervasivo di ogni singola persona, in ogni luogo ad accesso pubblico, bagni compresi.

Il software è stato sviluppato per motivi commerciali da colossi digitali cinesi come Alibaba, ed è ora usato per scopi dichiaratamente governativi di controllo e monitoraggio capillare della popolazione. Ora si sta introducendo finanche nelle scuole: la tecnologia permette di riconoscere le espressioni facciali degli alunni, le loro emozioni e il loro grado di attenzione, tramite misurazioni biometriche. Puoi eludere lo sguardo indagatore di un insegnante, di un poliziotto o di un capoufficio, ma non puoi sfuggire alle telecamere con riconoscimento facciale.

Così, il governo (o una qualsiasi corporation) può virtualmente schedare e catalogare ogni singolo cittadino, dalla culla alla tomba, controllando e tracciando ogni suo spostamento e acquisto, fornendogli un “punteggio” o un “voto” a seconda della sua condotta civica: se non attraversa sulle strisce, se guida senza cintura, se evade le tasse, se sgarra sulla raccolta differenziata, se dice le parolacce o se usa troppa carta igienica alla toilette, sarà sottoposto alla pubblica esecrazione, o direttamente privato dei diritti civili. Il trionfo della “trasparenza”. Che ricorda tanto il Grande Fratello orwelliano.

Ma i possibili usi della AI, nelle menti di ingegneri e scienziati, finanziati spesso da grandi multinazionali, sono illimitati, e se la Cina ha fatto balzi in avanti, l’Occidente non sta a guardare. Nella Silicon Valley, i grandi guru di Facebook, Google, Amazon, Apple, Tesla ecc. lavorano sulla brain-computer interface (intefaccia neurale di collegamento cervello-computer), promettendo cambiamenti epocali. La compagnia di Zuckerberg ha annunciato lo sviluppo di “un sistema che permetterà la digitazione di 100 parole al minuto – 5 volte la velocità di digitazione su uno smartphone – direttamente col pensiero”.

I veicoli auto-pilotati sono una realtà nelle nuove linee metropolitane, e alcune case automobilistiche stanno testando auto che si guidano col pensiero tramite un caschetto elettroencefalografico che, leggendo e monitorando le onde cerebrali, regola in automatico e all’istante ogni comando, inclusa l’aria condizionata.

Elon Musk, il vulcanico inventore di Tesla, Paypal e altre imprese, afferma la necessità di una “simbiosi cervello-computer”, per accrescere le capacità umane, propugnando la creazione dell’uomo-cyborg. Affermazione che fa eco a quella di Bostrom e di chi auspica il superamento e l’”evoluzione” della limitata condizione umana, in un prolungamento e fusione dell’uomo con il computer. L’utopia – o distopia – transumanista.

Se è vero che l’AI può arrecare benefici in ambiti quali l’assistenza sanitaria o i lavori usuranti, affiancando e affrancando l’uomo da pesi gravosi, si fa largo al contempo una visione escatologica trans e post-umana, per cui saremmo destinati ad essere replicati e sostituiti da algoritmi, come una versione superata di uno smartphone, oppure fusi direttamente in essi.

Non sono fantasie o paure da apocalittici: i toni del dibattito tra “scientisti” e “umanisti” in merito agli scenari futuri sono tanto forti quanto contrastanti. Secondo il filosofo Remo Bodei, docente a Los Angeles, l’homo sapiens – non ibridato -, sarebbe una specie in via di estinzione, destinata a essere rimpiazzata da un’altra in via di affermazione. E’ retrogrado, come i selvaggi del Borneo. Secondo il neuroscienziato Niels Birbaumer, studioso di brain-computer interface, questa tecnologia (che permette il controllo e la manipolazione della mente, tramite l’impianto di chip nel cervello), se non sottoposta a regolamentazione internazionale, sarebbe più pericolosa della tecnologia della bomba atomica.

Pochi mesi prima di morire, Stephen Hawking ha dichiarato che “siamo sulla soglia di un mondo completamente nuovo. I benefici possono essere tanti, così come i pericoli. Le nostre AI devono fare quel che vogliamo che facciano. Non possiamo prevedere cosa riusciremo a raggiugere quando le nostre menti verranno amplificate dalle AI. Ogni aspetto della nostra vita verrà trasformato…è anche possibile che con la distruzione di milioni di posti di lavoro venga distrutta la nostra economia e la nostra società”. E ancora: “temo che l’intelligenza artificiale sorpasserà l’uomo completamente. Così come siamo capaci di progettare virus per i computer, qualcuno progetterà una AI capace di migliorarsi e replicarsi”.

Il dibattito sta toccando anche la politica. In un discorso al Collège de France lo scorso marzo, Macron ha detto che l’AI è una sfida per la società civile: “finché la tecnica serve il bene comune non ci sono problemi. Ma innovazioni di questo genere non devono corrompere l’esigenza democratica. Dobbiamo immettere trasparenza e lealtà nel sistema…le scelte che faremo in tema di organizzazione dei compiti determineranno il lato da cui penderà la bilancia”. Se dalla parte della macchina o dell’uomo. E spetterà a noi deciderlo .

Una posizione equilibrata e critica nel dibattito in corso, che non scada nell’ anatema apocalittico né nell’elogio scientista incondizionato, deve assumere coscienza dei rischi e della responsabilità, che competono alla libertà dell’uomo ogniqualvolta questi crei secondo uno scopo e una visione. Libertà e responsabilità – dei nostri futuri destini mortali – che non sono demandabili all’algoritmo di una macchina. Dalle nostre scelte dipenderà il possibile avverarsi di una prospettiva piuttosto che un’altra. Un mondo transumano dominato da robot e (super)uomini ibridati con cyborg, o uno in cui l’uomo continuerà a usare la tecnologia al servizio, subordinato, dell’uomo .

Comunque sia, restiamo convinti che nessun computer, pur tra cento o mille anni, sarà mai in grado di comporre la Nona sinfonia di Beethoven o la Pietà di Michelangelo, eguagliando la mortale finitezza delle creature a immagine di Dio.

(di Lorenzo Burlini)

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