Guerra in Siria e rischio immigrazione: perché la pace è imperativa

Secondo il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, se gli attacchi sul territorio siriano dovessero proseguire, ci sarà il rischio di “nuove ondate di profughi in Europa”.

Lavrov, in realtà, certifica una situazione che si è cristallizzata non solo ultimamente, ma da quasi un anno, considerando che già nel maggio 2017 l’UNHCR stimava un numero di siriani in fuga dalla situazione destabilizzante intorno ai 5 milioni di individui (circa un quarto della popolazione, una cifra enorme).

La possibilità è stata banalmente scongiurata dall’evoluzione della guerra siriana. Con l’ormai incontrastato sostegno esterno della Russia e dell’Iran, l’esercito regolare siriano liberava Deir El Zor nel novembre 2017, spianando così la strada alla vittoria finale.

È chiaro, dunque, che a prescindere dalle necessità che l’ èlite neoconservatrice americana nutre per per i suoi quanto meno schizofrenici piani bellici, l’intervento militare di qualche giorno fa, pur blando e di fatto inconsistente, suoni come un campanello d’allarme che, semmai dovesse avere ulteriori seguiti, non solo porterebbe ad un’inevitabile allargamento del conflitto, ma anche ad una “ripresa” di quell’esodo di cui si parlava nel maggio scorso.

In questo contesto esiste anche il rischio che un’eventuale fiume di profughi possa ancora una volta interessare il nostro Paese: per carità, per “fortuna” i flussi verso l’Italia sono sempre stati di altra provenienza (soprattutto subsahariana) ma in generale, nel contesto di una Schengen ormai abbastanza depotenziata per quelle che sono le sue prerogative di salvaguardia dei confini esterni dei Paesi firmatari, non ci sarebbe da festeggiare ma anzi, da temere ulteriori peggioramenti.

A questo punto, tutto dipenderà da come si evolveranno le cose in Medio Oriente. L’opinione prevalente, ad oggi, è che Washington non farà seguito a un attacco già di per sé molto curioso, dalle modalità di comunicazione al nemico, consapevole addirittura di dove sarebbero caduti i missili, alle stesse dichiarazioni successive dei protagonisti.

Certo è che da un punto di vista comunicativo siamo di fronte a un caos in cui la parola d’ordine è “confusione”.

Dopo aver annunciato il disimpegno alla fine di marzo, e dopo aver smentito tutto con l’attacco, il presidente americano Donald Trump, replicando a un Emmanuelle Macron che aveva giudicato l’operazione militare in sé “perfetta” (sulle basi di cosa resta un mistero, ma tant’è) , sembra oggi tornare nuovamente a una dimensione più dimessa (“Via le truppe USA, si impegnino gli alleati” ), il che potrebbe anche suggerire la possibilità che il solito “braccio di ferro” con il cosiddetto Deep State stia proseguendo con le solite irregolarità alle quali ci ha abituato negli ultimi anni.

Non credo sia un mistero che gli USA vogliano partecipare a una tavola rotonda delle trattative: il problema reale è che non si potrà pretendere di convincere Putin a rinunciare a un’area geopoliticamente fondamentale per la presenza russa nel Mediterraneo.

(di Stelio Fergola)