Ready Player One, il fanservice che trionfa

A Steven Spielberg si possono muovere tante critiche, su tutte lo spirito artistico non sempre illuminato delle sue opere. Nessuno apra la bocca quando si parla di tecnica pura, ed è pure difficile farlo quando si fa conto delle volte in cui abbia indovinato un tema.

Ready Player One appartiene sicuramente alla categoria dei numerosi “bingo” del regista americano sotto questo punto di vista: il film, adattamento dell’omonimo romanzo Ernest Cline, è un megakolossal fantascientifico distopico per il quale, non a caso, è stato incaricato della sceneggiatura lo stesso scrittore.

Nel 2045 l’umanità è in brandelli, quanto meno morali. Le uniche cose che si possono scorgere sono grattacieli di catapecchie e città disordinate, affollate e sporche. Ma soprattutto, la gente si annoia.

Ed ecco che Oasis, altro se non l’ultimo stadio del videogioco, un fantasmagorico mondo interattivo in realtà virtuale con tanto di occhiali, guanti e tappetini multi-direzionali, viene in soccorso del cittadino medio: evadere dalla realtà è il primo risultato, il secondo, forse inatteso, è rifuggirne in via quasi definitiva.

E infatti gli uomini in Oasis conducono una vera e propria seconda vita. In cui possono interpretare il ruolo di loro avatar costruiti a piacimento, possono giocare a tutti i generi videoludici esistenti. Ed è qui che la questione si fa interessante: il 2045 immaginato in Ready Player One attinge a piene mani da un passato quasi del tutto da noi vissuto, a 2018 appena iniziato.

La prima conseguenza ovvia è il citazionismo estremo: anime, videogioco e fantascienza anni Novanta, ma anche Ottanta, in un turbine di immagini che in qualsiasi altra pellicola avrebbe stonato, sarebbe risultata forzata o costruita apposta, ma in Ready Player One diviene magicamente coerente: perché nel 2045 in un videogioco virtuale non dovrebbe essere possibile possedere la Delorean di Ritorno al Futuro del 1985?

Oppure la motocicletta di Kaneda, protagonista del film Akira (1992) di Katsuhiro Ōtomo?

E James Halliday, game designer creatore di Oasis, potrebbe mai non avere un gioco preferito? Ma ovviamente sì, e si tratta di Goldeneye 007, uscito per Nintendo 64 nel 1997.

È completamente inutile andare oltre, non solo per l’elenco interminabile (includendo serie tv, altri film e ovviamente altri videogiochi), ma perché il citazionismo riflette lo spirito del film dal primo all’ultimo minuto. La passione per le icone, per le rappresentazioni, per le immedesimazioni, ovvero ciò che caratterizza, da sempre, l’universo del videogioco. Niente trama od orpelli, ma la voglia di giocare e basta, cosa che – tra l’altro – il film sembra comunicare in maniera addirittura filosofica nel convulso finale.

Ready Player One vi farà assistere a sequenze spettacolari, una colonna sonora (giustamente!) fanservice, e una regia di prim’ordine come da tradizione spielberghiana. È vero, vi trascinerà anche in una trama buonista, in certi frangenti davvero banale, ma permettete di dirvi che potrebbe anche non fregarvene nulla: uno spettacolo simile merita una visione al netto dei contenuti. Anche perché non si parla di filosofia induista, ma di videogiochi, ovvero balocchi, stramaledettissimo divertimento messo su pellicola.

E di film sui balocchi virtuali ne abbiamo visti veramente tanti negli ultimi 30 anni: da Il Piccolo Grande Mago dei Videogames del 1989, al tremendo Super Mario Bros (1992), alla saga di Resident Evil portata sul grande schermo, così come quella di Tomb Raider. Pellicole oscillanti tra l’orrido e il guardabile (carino davvero l’ultimo reboot di Lara Croft uscito quest’anno), ma niente più che questo. Forse l’esperimento più simpatico era stato Hardcore! (2015), praticamente un FPS girato al cinema, ma i risultati, anche lì, lasciavano a desiderare.

Ci avevano provicchiato film in computer grafica mediocri quali Pixels, o graziosi come Ralph Spaccatutto. Ma il quid, la coerenza generale, mancavano decisamente.

Nessun film sul gioco era riuscito a superare la mediocrità trattando semplicemente di “gioco”. Anzi, quest’ultimo era un ostacolo alla qualità, condizionava le sceneggiature in modo cangeroceno: il Tomb Raider del 2018, ad esempio, è un’ azzeccata storia di azione che lascia giustamente da parte i riferimenti ludici della serie interpretata da Angelina Jolie, ed è per quello che, tutto sommato, funziona.

Spielberg, invece, riesce dove gli altri hanno sempre toppato. Al netto delle ingenuità di una trama sempliciotta, Ready Player One trova la formula giusta per fare, per la prima volta nella storia, centro: il miglior film sui videogiochi mai realizzato.

Un mondo distopico, futuro, ma legato a storie che fanno parte del nostro presente o della nostra infanzia. Il che rende plausibile utilizzare le icone in piena libertà e catturare l’essenza forse unica in grado di dare senso a un film sui videogiochi stessi, con un’evoluzione della storia che parte dal gioco e finisce nel gioco.

Come è giusto che sia.

(di Stelio Fergola)