Coca-Cola: capitalismo in lattina

Coca-Cola: capitalismo in lattina

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Coca Cola è la parola più conosciuta al mondo dopo ok. Ma come ha fatto una ricetta scopiazzata di un farmacista a diventare un impero commerciale? Mentre “la Coca-Cola uccide” potrebbe sembrare un buono slogan, seppur banale, contro la bibita a stelle e strisce, sarebbe più corretto dire “la Coca-Cola uccide chi non la beve”, vediamo perché partendo dall’inizio.

John Pemberton (1831-1888) è stato un farmacista e colonello della guerra di secessione americana, finita la guerra si trasferì ad Atlanta: cercava un modo facile per fare soldi e in quegli anni erano molto in voga i cosiddetti “patent medicines”(farmaci brevettati). Dopo la guerra di secessione intere zone degli Stati Uniti si ritrovarono isolate e malsane, tanto che la cura dei malati era affidata ad improbabili chimici che si dilettavano ad elaborare medicinali che spesso non erano altro che semplici lassativi o emetici.

Non era difficile trovare per strada venditori di “caramelle alla cocaina per la cura del mal di denti” ad esempio, ma il “farmaco brevettato” più celebre all’epoca era il Vin Mariani, ottenuto miscelando vino rosso Bordeaux con un po’ di coca. Nel 1884 Pemberton ebbe la geniale idea di copiare (aggiungendo appena qualche ingrediente) la ricetta di Angelo Mariani, nacque così il “Pemberton’s French Wine Coca” (il padre biologico della Coca-Cola). Tra gli ingredienti aggiunti vi erano le noci di cola, con un contenuto di caffeina superiore al caffè.

Il farmacista tuttavia ebbe la sfortuna di trovarsi ad Atlanta che proibì la vendita di bevande alcoliche a partire dal luglio 1886. Fu costretto a modificare la sua ricetta rendendola analcolica, aggiunse qualche acido, sostituì le noci di cola con caffeina sintetica [1] e, cosa più importante, aggiunse anidride carbonica che dà quel tocco frizzante per cui la bevanda è famosa.

Pemberton non visse abbastanza per raccogliere i frutti della “sua ricetta”, morì di tumore allo stomaco nell’agosto del 1888 dopo aver venduto nel primo anno di commercializzazione meno di cento litri della bevanda, però fece in tempo a vendere la ricetta alla modica cifra di 2.300 dollari ad un altro farmacista: Asa Candler [2].

La Coke, venduta come neurotonico per il mal di testa, ci mise qualche anno per affermarsi come bibita rinfrescante, tanto che nel 1898 il governo americano per finanziare la guerra di Cuba promulgò un’imposta sull’industria farmaceutica, Coca-Cola compresa. Nel 1901 Candler portò la questione in tribunale negando che la sua formula fosse un farmaco, vinse la causa perché il governo “non poteva dimostrare la quantità di coca presente nella bevanda”.

Tralasciando gli intrighi sui passaggi di proprietà dell’azienda, è curioso notare come negli Stati Uniti, dove il liberalismo economico è quasi un dogma di fede, un’azienda che produce bibite si sia riuscita ad imporre sul governo durante la seconda guerra mondiale.

Durante la Grande Guerra la Coke (come tutte le altre aziende che facevano uso di zucchero) dovette subire il razionamento dello zucchero, tanto da dimezzare la produzione. Durante il secondo conflitto mondiale, invece, fece di tutto per non subirlo e, dopo aver prodotto un opuscolo in cui si spiegava “scientificamente” che il rendimento degli operai e dei soldati aumentava quando erano riposati ed aver raccolto testimonianze “sulla capacità della Coca-Cola di tenere alto il morale dei soldati”, non si sa per quale strano rituale magico, uno dei dirigenti della Coca-Cola entrò a far parte del comitato per i razionamenti.

Non solo riuscì ad evitare il razionamento dello zucchero per la sua azienda (le altre aziende che usavano zucchero ridussero del 20% la produzione), riuscì addirittura con un ordine firmato direttamente dal generale G.C. Marshall a spedire sul fronte, dove richiesto, macchinari per l’imbottigliamento della Coca-Cola, tutto a spese dello stato [3].

Sarà sicuramente un caso se il tasso di obesità negli Stati Uniti è raddoppiato nello stesso periodo in cui sono raddoppiate le vendite di bibite (Coca-Cola e Pepsi in prima fila) e sarà a causa di sbadataggine se nella Coca-Cola è stato trovato un quantitativo di benzene cinque volte superiore ai limiti consentiti, sta di fatto che il piano Marshall facilitò l’ingresso di multinazionali nel continente europeo.

Con la rivoluzione nelle vene e la ghigliottina stipata in cantina, i francesi non tardarono ad alzare la voce. Un’improbabile alleanza tra comunisti e vinicoltori conservatori, temendo il calo del consumo di prodotti francesi, cercarono di far approvare dal governo una legge che avrebbe bandito la Coca-Cola dal suolo nazionale. James Farley, direttore Coca-Cola Export rispose con la solita retorica “la Coca-Cola non ha certo danneggiato la salute dei soldati americani che hanno liberato la Francia dai nazisti”, dimenticandosi che la Coca Cola Company aveva fatto affari anche con la Germania Nazionalsocialista.

Il dipartimento di stato degli Stati Uniti avvertì la Francia che in caso di approvazione di quella legge, ci sarebbero state gravi ripercussioni, un parlamentare statunitense “minacciò di avviare una guerra commerciale contro il vino, i formaggi e lo champagne francesi.” [4] La Francia è solo uno dei paesi in cui si trovò a combattere la Coke.

In un’ottica in cui il profitto è l’unico obiettivo ed ogni mezzo è lecito per raggiungerlo l’etica soccombe sotto i piedi della essenza del capitalismo (così è stata definita la bevanda da un suo stesso dirigente, Robert W. Woodruff). Un altro soldato della bibita frizzante, Douglas Ivester, ebbe perfino l’idea di testare in Brasile un distributore automatico che con l’aumento della temperatura, aumentava il prezzo della bibita.

Ci può stare che la Coca-Cola sia un prodotto non proprio salutare, in fondo nessuno ci costringe a comprarlo [5], ma che per produrre una bevanda si privi a delle persone l’accesso ad una fonte naturale di acqua, dovrebbe suscitare quanto meno indignazione. E’ quello che accade alle pendici dello Huitepec in Messico, dove durante le stagioni secche si patisce la scarsità d’acqua. Gli abitanti raccontano che questo non avveniva prima della costruzione di uno stabilimento Coca-Cola che a quanto pare consuma enormi quantità d’acqua.

Accade che in prossimità di una delle falde acquifere più ricche del Messico, gli abitanti sono costretti a comprare l’acqua dall’esterno. Questo accade in tutta legalità, visto che l’azienda per 29.000 dollari ha ottenuto le licenze per estrarre acqua, privando le popolazioni che vi abitano in prossimità e guadagnando 650.000.000 di dollari l’anno solo in Messico. Vicente Fox, dirigente della Coca-Cola che si diede da fare per far passare la legge che consentiva l’instaurazione degli stabilimenti, divenne magicamente presidente del Messico.

In India la situazione è ancora più grave, gli stabilimenti Coca-Cola oltre a lasciare con poca acqua i villaggi nei pressi di Varanasi, rilasciano acqua di scarico che raggiunge il terreno rendendolo improduttivo, gli animali che bevono quell’acqua muoiono e le persone che vengono a contatto con il liquido si riempiono di vesciche. C’è di più, in alcuni stabilimenti indiani della Coca-Cola veniva distribuita ai contadini una cenere bianca che spacciavano come fertilizzante, dopo aver sparso questa cenere, la terra non dava più frutti.

Quando venne analizzato il “fertilizzante” della Coca-Cola dall’università di Exeter, risultò non solo che il materiale era inutile come fertilizzante ma conteneva anche livelli alti di metalli come piombo e cadmio. Nello stato del Kerala l’opposizione della popolazione nei confronti degli stabilimenti rossi e bianchi fu così pressante e coesa che la Coca-Cola dovette chiudere i battenti nel 2004.

In Colombia la situazione è più complessa, dopo una serie di uccisioni di sindacalisti del Sinaltrainal (sindacato dei lavoratori Coca-Cola) l’azienda è stata accusata di essere complice delle uccisioni fatte dai gruppi di paramilitari che stroncano ogni tentativo di miglioramento delle condizioni di lavoro. Sebbene in tribunale non siano mai giunte prove a sufficienza a sostegno di questa tesi, una cosa è certa: la Coke non ha mai fatto nulla per salvaguardare la sicurezza dei “propri” lavoratori. Isidro Gil, uno dei sindacalisti uccisi dai paramilitari è diventato uno dei simboli principali della campagna Killer Coke, che ha come scopo la sensibilizzazione, il boicottaggio e la denuncia dei crimini della Coca-Cola.

Il Guatemala venne appoggiato dagli USA nell’instaurazione di una dittatura militare che causò 30 anni di guerra civile. Gli operai della Coca-Cola in Città del Guatemala, stanchi di turni di 12 ore e di essere pagati 2 dollari al giorno, quando cercarono di organizzare un sindacato, ricevettero una chiara risposta: 154 licenziamenti. Furono riassunti “tutelati” dalla legge, ma prima che il sindacato si formasse per scendere a patti con lo stabilimento, dovettero morire otto operai.

Anche in Turchia gli operai della Coke hanno avuto problemi ad organizzarsi in un sindacato, ma come ultimo caso ci spostiamo in Africa, precisamente in Sudafrica. L’azienda investì anche nello stato governato dall’apartheid (alla faccia delle pubblicità multirazziali) e ci volle l’intervento di Martin Luther King Jr, per spostare la fabbrica in Swaziland. Non passò molto tempo che la Coca-Cola tornò in Sudafrica finanziando la campagna elettorale di Nelson Mandela, una volta instaurato il nuovo governo, la Coca-Cola riprese i lavori.

E’ difficile riassumere la vastità di un tale fenomeno in poche righe, Coca-Cola è solo uno dei grandi marchi che si sono radicati nella nostra vita, un’invasione progressiva che passa quasi inosservata perché agisce sul piano del costume entrando a far parte di una “cultura globale” autoreferenziale che si propone come l’innovazione (nei centri urbani dell’India non è raro trovare cartelli che raffigurano lo stile di vita statunitense con scritto “come dovrebbe essere”) nascondendo sotto la sua ombra inquietanti retroscena.

Globalizzazione e capitalismo sono parole che spaventano ma sotto la falsa luce della “libera scelta” siamo noi stessi che ogni giorno continuiamo (magari ignaramente) a favorire l’espandersi di questa infiltrazione.

(di Umberto Iacoviello)

Note
[1] La Coca-Cola (battezzata così dal collaboratore di Pemberton, Frank Robinson) tra il 1906 e il 1911 non contenne né estratti dalla pianta di coca né noci di cola. Nel 1911 il chimico Harvey W. Wiley portò davanti un giudice la Coca-Cola ritenendola dannosa per la salute per l’eccessivo quantitativo di caffeina e per avere un nome fuorviante, proprio perché non conteneva né coca né cola. Dopo una magra figura dell’azienda (gli ispettori governativi verificarono una precaria condizione igienica trovando perfino tracce di insetti nella bibita) la Coca-Cola si impegnò a dimezzare la quantità di caffeina e ad aggiungere nuovamente le foglie di coca e le noci di cola.
[2] Candeler nel 1904 avrebbe guadagnato dalla vendita della bevanda 1.500.000 dollari.
[3] L’allora generale Dwight Eisenhower chiese 6.000.000 di bottigliette di Coca-Cola al mese durante la campagna d’Africa del 1943.
[4] Coca-Cola, Michael Blanding pag.165
[5] La libertà di scelta è opinabile nel momento in cui questa bevanda ha lottato per entrare nelle scuole con i suoi distributori, spesso con contratti in esclusiva. “Alcune ricerche mostrano che i bambini di sei mesi sono già in grado di riconoscere un brand e quelli di tre anni, sanno espressamente richiederlo”( Coca-Cola, Michael Blanding pag. 102)

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