Le “Compagnie della Morte” e l’armatura Farina

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La Prima guerra mondiale non è stata altro che il primo conflitto contemporaneo combattuto però da Alti Comandi del secolo precedente. Le nuove micidiali armi utilizzate sui campi di battaglia di tre diversi continenti, dalle mitragliatrici ai carri armati, per non parlare degli aeroplani e delle armi chimiche, portarono una tale quantità di innovazioni nel campo della tecnica e strategia militare che i generali di tutti gli eserciti in conflitto non ebbero le capacità di adattarvisi.

Esempio lampante di questa cecità fu il generale in capo del Regio Esercito Italiano: il gen. Cadorna. Formatosi più come impiegato che come combattente, Cadorna sosteneva  che un assalto portato a fondo con grande convinzione e determinazione, senza ovviamente tenere conto delle perdite umane, poteva vincere qualsiasi sbarramento di mitragliatrici. E questa folle idea non esitò a metterla a frutto sull’Isonzo con le sue famose “spallate”. Ragionando con schemi delle guerre di movimento napoleoniche , i generali di tutti gli eserciti d’Europa ideavano piani d’attacco che portarono migliaia e migliaia di soldati al macello.

Le “Compagnie della Morte” e l’armatura Farina

La guerra infatti, dopo i primi mesi dall’apertura delle ostilità, si trasformò lentamente in un conflitto di posizione. Centinaia di migliaia di km di reticolati, trincee, e filo spinato deformarono la geografia europea, portando i soldati ad un’estenuante guerra passiva d’attesa e sacrifici. I soldati lanciati all’attacco si   impigliavano spesso nel filo spinato che, intrappolandoli in una stretta pungente, li rendeva ottimi bersagli per i cecchini nemici. Al fine di superare questi sbarramenti, gli Stati Maggiori iniziarono a formare reparti di volontari con l’obiettivo di aprire dei varchi nei reticolati nemici.

Le “Compagnie della Morte” e l’armatura Farina

L’esercito italiano non fu da meno e con la circolare 496 del 16 giugno 1915 creò: “piccole unità che, insinuandosi tra le accidentalità del terreno, dovranno irradiarsi, protette dagli schermi mobili, verso i reticolati del nemico” con il chiaro intento di tagliare gli sbarramenti di filo spinato per favorire l’attacco dei commilitoni. Nacquero così quelle che in Italia verranno definite come “Compagnie della morte” a causa dell’altissimo numero di decessi. Piccole unità di 3/4 soldati, armati di cesoie, tubi di gelatina da far esplodere sotto i reticolati e scudi di ferro per proteggersi dai proiettili nemici,  uscivano dalla sicurezza delle trincee per aprire la strada ai soldati. Molti furono gli italiani che, mostrando un coraggio leonino, si sacrificarono pur di permettere ai propri compagni di non morire intrappolati nel filo spinato durante gli assalti.

Le “Compagnie della Morte” e l’armatura Farina

Queste unità di volontari non vennero dotate solo di scudi – quasi inefficaci- per proteggersi dal tiro nemico, ma anche di vere e proprie armature come il “completo Farina”. Questa era  un’armatura fatta da 5 fogli d’acciaio da 1,5 mm che arrivava a pesare 9 kg, insieme ad essa l’ingegner Ferruccio Farina ideò anche un elmetto di 4 cm di spessore. Se l’idea di fondo era buona, ovvero proteggere il soldato in missione suicida, l’esito non fu per niente positivo: le armature infatti riuscivano a proteggere i soldati dalle schegge delle esplosioni, ma venivano perforate senza problemi da qualsiasi proiettile nemico.

Le “Compagnie della Morte” e l’armatura Farina

Fortunatamente l’uso di queste formazioni di arditi volontari si limitò ai primi mesi di guerra, dal 1916 infatti l’utilizzo di bombarde a tiro curvo per distruggere i reticolati salvarono le vite di numerosi fanti di tutta Europa. Per un breve periodo della guerra comparve, sul fronte italiano, un novello soldato medievale: i coraggiosi volontari infatti, armati di guanti e stivali di gomma, vestiti con armature d’acciaio, elmi rinforzati, scudi e “lance tagliareticolati”, ricordavano cavalieri e armigeri del passato.

(di Fausto Andrea Marconi)

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