Foibe: la giornata del ricordo selettivo

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In Italia, la legge n. 92 del 30 marzo 2004, approvata quasi all’unanimità dal Parlamento, ha sancito l’osservanza del 10 febbraio quale “Giornata del Ricordo”, ossia come solennità civile a ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo dalmata-giuliano. Tuttavia, ciò non è bastato a strappare la memoria di questi eventi luttuosi alle polemiche ideologiche per consegnarla alla memoria condivisa del popolo italiano. Né sarebbe potuto avvenire diversamente, viste le premesse politiche. Infatti, le chiavi di lettura prevalenti, impugnate dalle due fazioni che si sono scontrate sui corpi dei nostri morti, sono entrambe del tutto consustanziali alla retorica dell’anti-totalitarismo proclamata dal liberal-capitalismo trionfante.

La destra italiana era stata sdoganata dal ghetto neofascista a prezzo di una compromissione ancora più accentuata dei propri ideali, in continuità con quella linea conservatrice e anticomunista prevalente tra i vertici del MSI fin dal secondo dopoguerra, che ne faceva de facto un partito filo-atlantista, fatta salva la fede di tanti militanti.

Lo stesso governo, dunque, che aveva partecipato senza remore alle guerre imperialiste in Afghanistan e Iraq, ora chiedeva di istituzionalizzare il ricordo del dramma dalmata-giuliano. L’intento, in sé lodevole, nascondeva essenzialmente due motivazioni.

Da una parte, si trattava di una vittoria da esibire presso la propria base elettorale, quasi a nascondere la carenza di azioni di minor valore simbolico, ma più incisive sul piano pratico. Poi, si costituiva una vera e propria “contro-Giornata della Memoria”, a breve distanza (due settimane) dalla prima. Non è certo un caso che, in diverse occasioni, le manifestazioni in quest’occasione siano state estese a «tutte le vittime del comunismo» o addirittura «contro i crimini del comunismo».

La stessa strumentalizzazione delle vittime del nazionalsocialismo era ora applicata alle vittime del comunismo, con lo scopo di demonizzare acriticamente – che è cosa ben diversa dal giudicare criticamente – anche questa ideologia, dopo la sua sconfitta storico-politica. Come osservava Costanzo Preve, il fine ultimo di queste operazioni è di negare e squalificare ogni possibile alternativa al capitalismo liberaldemocratico.

Questo anticomunismo, seppur in termini meno virulenti, è condiviso di fatto anche dal centrosinistra, come provano le affermazioni dell’ex-presidente Napolitano, che ammettono esplicitamente la pulizia etnica. Ben altro discorso vale per la sinistra postcomunista e radicale, che ha sempre contestato la Giornata del Ricordo, grazie sia alla discreta influenza di cui ancora gode in ambito accademico e culturale, sia all’uso dell’antifascismo militante a scopo squadristico. Il loro vergognoso e impunito negazionismo vorrebbe ridurre la tragedia delle foibe all’eliminazione di presunti fascisti e sostenere che l’esodo delle popolazioni giuliano-dalmate sia avvenuto per libera scelta.

Diceva bene, a proposito, Jacques Sapir che «L’odio per la propria nazione è l’internazionalismo degli imbecilli». Costoro, infatti, portano avanti l’eredità infame di quegli italiani, anteponendo la cecità ideologica all’amor di Patria, cooperarono fattivamente all’uccisione e all’oppressione dei propri stessi fratelli, tacciando di “fascismo” le centinaia di migliaia di esuli che non intendevano vivere sotto un governo ostile. Era comprensibile, ancorché non giustificabile, lo spirito di vendetta degli sloveni e dei croati, già vittime della sanguinosa aggressione e occupazione italiana.

Viceversa, la complicità italiana in questi crimini, così come il lungo silenzio che ha avvolto questi fatti da parte delle forze costituzionali italiane, incluse quelle liberali e democratiche, costituisce una ferita ancora aperta.

D’altra parte, la sinistra radicale, non ha tutti i torti nello stigmatizzare l’anticomunismo d’accatto la slavofobia becera, che talvolta accompagnano le manifestazioni di ricordo. Tuttavia, la sua ottusa apologia della Jugoslavia socialista è storicamente insostenibile, oltre che politicamente insensata.

Non si discutono i meriti del Maresciallo Tito nel tentativo di costruire uno Stato socialista federale e plurietnico, in grado di mantenere la propria sovranità rispetto ai blocchi contrapposti della Guerra Fredda. Non si può nemmeno dimenticare, però, che a fondamento della sua opera sta il massacro di centinaia di migliaia di oppositori politici e di appartenenti alle minoranze etniche (Tedeschi, Ungheresi, Italiani).

Men che meno, chi si dichiara comunista dovrebbe scordare che Tito fu sostenuto dai Britannici (a partire dal 1944), i quali favorirono il suo distacco dall’URSS, e che la sua politica antistalinista penalizzò il blocco sovietico a livello geopolitico, oltre a comportare la purga di migliaia di comunisti fedeli a Mosca. Fu per quest’ultimo motivo, infatti, che gli Alleati imposero all’Italia di non sollevare la questione giuliana.

Il ricordo di cui si parla è dunque un ricordo selettivo: a destra si vuole ricordare solo i delitti commessi dai partigiani comunisti, mentre per la sinistra esistono solo i crimini perpetrati dagli occupanti fascisti. Entrambi dimenticano che le tensioni politiche tra i nazionalismi sloveno e croato da una parte e quello italiano dall’altra risalgono alla prima metà dell’Ottocento, e che i primi erano stati ampiamente sfruttati dall’Impero d’Austria per ridurre e diminuire la presenza italiana nella regione. Nel mezzo secolo antecedente la Grande Guerra, le politiche anti-italiane degli Asburgo si erano appoggiate al revanscismo slavo, motivato a sua volta anche dalle differenze sociali tra città e campagna.

Tuttavia, non si tratta di un episodio marginale della storia italiana. Al di là del balletto delle cifre sui morti e sugli esuli, la realtà storica mostra che in Venezia Giulia e Dalmazia è successo quello che né le bombe angloamericane né le rappresaglie e le deportazioni nazifasciste, benché più cruente, avevano potuto: eradicare da intere regioni la bimillenaria presenza italiana. Fu né più né meno che una mutilazione per l’Italia. Perciò, è dovere di tutti gli Italiani, indipendentemente dal loro orientamento politico ricordare questo olocausto.

Infine, parlando di ricordo selettivo, non dobbiamo dimenticare che questa tragedia, vista in un contesto più ampio, non è che un tassello del criminale piano di spartizione dell’Europa tra le due sfere d’influenza delle superpotenze vincitrici, le quali ridisegnarono i confini a proprio piacimento, sulla pelle di oltre 15 milioni di esuli (per lo più Tedeschi, ma anche Polacchi, Ungheresi, Italiani…). Il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Parigi tra gli Alleati e gli Stati europei sconfitti (Italia, Bulgaria, Ungheria, Romania, Finlandia), si dovrebbe perciò commemorare non solo le vittime della più grande pulizia etnica della storia europea, ma anche l’imperialismo statunitense che ancora oggi calpesta l’Europa.

Noi Italiani ed Europei non dobbiamo dimenticare perciò neanche le altre clausole di questa pace imposta, quelle numerose limitazioni alla nostra sovranità che dobbiamo spezzare, se vogliamo riconquistare la libertà di decidere del nostro destino.

(di Andrea Virga)

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