La Repubblica Italiana non ha identità culturali, filosofiche, ideologiche

La recente dichiarazione di Sergio Mattarella (“Sentir dire che ‘il fascismo ebbe alcuni meriti ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra’ è affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile da respingere con determinazione”) è solo l’ultima delle innumerevoli manifestazioni istituzionali di antifascismo anacronistico di questo Paese.

In questa sede, però, non mi interessa soffermarmi su questo aspetto. È inutile ripetere fino all’ossesso la stupidità del prendersela con un nemico sconfitto e sepolto, ma piuttosto sarebbe utile concentrarsi su ciò che è nato dalle ceneri di quel nemico.

Ebbene, con la caduta del fascismo, la resa dell’8 settembre 1943 e la capitolazione della RSI nell’aprile 1945, è nata, su quello non c’è alcun dubbio, una nuova Italia.  Radicalmente diversa per pensieri, parole, opere ed omissioni rispetto non solo a quella fascista, ma anche a quella liberale di completo marchio  sabaudo (diverso da quello “condominiale” tenuto durante il ventennio mussoliniano).

Questa nuova Italia, ispirata ai modelli di democrazia di stampo liberale esportati in Occidente, nella sua Costituzione parla tanto di ripudio della guerra (quell’articolo 11 che sa tanto di “autodivieto” di iniziativa militare autonoma), tanto di libertà di parola e stampa (articolo 21) costruisce istituzioni politiche che hanno l’ossessione del controllo (camere paritarie, caso unico al mondo, ruolo del governo ridotto ai minimi storici, assenza totale di gerarchia nei meccanismi di funzionamento parlamentari ed esecutivi, ben oltre il compito della neonata Corte costituzionale).

Un’Italia in cui la parola “patria” sarà citata sì e no un paio di volte, di sbieco, nella legge fondamentale, e “nazione” parimenti. Due termini, patria e nazione, che diventano quasi parolacce nei decenni immediatamente successivi alla sconfitta, come ebbe a ricordare in più di un’occasione il Montanelli.

Un’Italia che vive, fino agli anni Ottanta, di personalità individuali residue che si curano, ogni tanto, di ricordarsi di far parte di un tutto: il grandissimo Alcide De Gasperi, che in una situazione disperata fece di tutto per difendere i brandelli degli interessi nazionali, Amintore Fanfani con la sua politica di “raccordo” tra Est e Ovest negli anni Sessanta, Enrico Mattei con la sua sfida ai padroni del petrolio, Adriano Olivetti e la sua impresa sociale, Bettino Craxi con la sua politica mediorientale e mediterranea.

Un’Italia in cui le istituzioni, però, cessano di veicolare il significato del collettivo in modo repentino e violento, anzi, ripudiandolo ad ogni costo pur di non avere niente a che fare con il regime che l’aveva preceduta, al punto da rivoltarsi contro sé stessa e da costruire una scienza politica della negazione e mai della costruzione.

Sorge spontaneo chiedersi quale sia, concretamente, l’identità di questo nuovo Stato. Ovviamente, l’antifascismo. La negazione, per l’appunto. I partiti politici promettono, alla vigilia di ogni tornata elettorale, di voler costruire un Paese migliore. Ci crediate o meno, quanto queste affermazioni corrispondano poco a verità non costituisce la radice del problema, che invece risiede nello spirito con cui si immagina tale miglioria, quasi sempre concentrata esclusivamente su tematiche economiche le quali, pur essendo indubbiamente importanti, sono nulla rispetto al senso di comunità che la Nazione ha completamente smarrito dall’8 settembre 1943, senza che vi sia mai nessun accenno a ritrovarlo, pena la possibilità di essere accomunati nuovamente al terrificante fascismo e ai suoi inenarrabili delitti.

Il “Paese migliore” non può intervenire nella politica mondiale affermando sé stesso, non può glorificare i suoi eroi in modo troppo netto e celebrativo (basti pensare quanto siano deboli i ricordi di  Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, relegati a simboli da manifestazioni di centri sociali che all’atto pratico non sono disposti a imporre nessuna delle morali “proibizioniste” che hanno ispirato uomini di quel calibro nella lotta alla mafia).

Non può difendersi da invasioni migratorie, perché ciò sarebbe razzista e xenofobo, anzi deve promuoverle per sentirsi al passo coi tempi. Non può valorizzare ed esportare la propria cultura nel mondo, non può celebrare neanche vittorie che col fascismo nulla hanno a che fare, come il 4 novembre della Grande Guerra.

Ogni successo militare deve subire il peso dell’autocritica e della onnipresente negazione, viceversa le sconfitte sono quasi elevate a rango di esperienze mirabili e in fin dei conti inclini a preservare un concetto di “pace” che non ha nulla a che vedere con la realtà e molto con quello di sottomissione.

Non si capisce in cosa si dovrebbe estrinsecare, insomma, nella Repubblica Italiana nata nell’anno del Signore 1948, l’amore per sé stessa. Se non nella sempreverde critica di un regime morto e sepolto. Giammai pensare a cose più importanti, tipo l’Italia, al suo popolo e le ingiustizie sociali che oggi la dominano. Al suo irrinunciabile senso storico millenario, al valore incredibile che esso rappresenta per tutta la cultura occidentale, di cui è in un certo senso fondatrice insieme alla Grecia.

“L’identità non è un concetto di destra”, ha scritto di recente Andrea Zhok sulle pagine de L’Espresso. Probabilmente ha ragione. L’Italia repubblicana, però, ha fatto sì che diventasse tale, e su questo permetteteci di non nutrire dubbio alcuno. Poi ci sarebbe da discutere anche su quanto la stessa destra, ormai, si stia piegando senza freni alle idee anti-identitarie, ma la nostra trattazione, per ora, non vuole occuparsene.

Dopo 70 anni, in compenso, certifichiamo l’esistenza di un regime politico che non ha altro modo di legittimarsi se non urlando all’antifascismo in ogni circostanza, evidenziando un complesso di inferiorità evidente. Tutto ciò, ovviamente, evitando come la peste ciò che è più importante: pensare a sé stesso. E a quella parolaccia chiamata patria, la stessa Italia di cui si autoproclama rappresentante.

La tristezza di chi scrive, sulla questione, è palpabile. Non c’è da goderne, non c’è da rallegrarsi per nulla. E chi pensa che in questa malinconia c’entri qualcosa il fascismo, mi spiace, ma non ha capito proprio nulla.

 (di Stelio Fergola)