La caduta delle sinistre europee

Nell’ultimo quinquennio l’Europa sta assistendo alla lenta e graduale caduta dei partiti di sinistra. Che si tratti della perdita di consensi, di incapacità di vincere, di uscita dal parlamento o perfino scioglimento, i dati elettorali degli ultimi anni mostrano quasi ovunque un fenomeno comune: le sinistre europee sono, quasi in contemporanea, al loro minimo storico.

Questo crollo, che è stato definito da alcuni studiosi “pasokizzazione” (alludendo alla disfatta PASOK greco, il primo temporalmente), ha sicuramente molte cause e concause – ed è ancora in pieno svolgimento. Perché, accanto alla fine di sinistre storiche, si sono affacciate all’orizzonte nuove formazioni di diversa natura. Lungi dal semplificare questo fenomeno, come spesso succede alle élite di quegli stessi partiti di sinistra che incolpano dei propri tracolli prima “il populismo” e poi il “popolo” stesso, è bene analizzarlo nelle sue numerose diramazioni e manifestazioni.

DALLA GRECIA ALLA FRANCIA: DÉBÂCLE E NUOVE SINISTRE

Il primo grosso partito della sinistra storica a cadere in macerie fu, come accennato, il PASOK (Movimento Socialista Pan-Ellenico), con le elezioni del 2015. Dopo aver governato quasi ininterrottamente per tutti gli anni ’80 e ’90 (sconfitto nelle elezioni del 1989, ottenendo tuttavia il 40% dei voti), sfornando Primi Ministri del calibro di Papandreu padre, Simitis e Papandreu figlio, nel 2015 raggiunge l’abisso.

Dopo aver ottenuto un misero 13% alle elezioni del marzo 2012, in quelle del gennaio 2015 raggiunge il 4,6%. Si rialzerà a malapena, alle nuove elezioni del settembre 2015, in alleanza con DIMAR (Coalizione Democratica) toccando il 6%, ma nel 2017 il PASOK dovrà chiudere battenti. Attualmente, è in corso la formazione di un nuovo partito di centrosinistra dal nome di “Movimento per il cambiamento”, che raggruppa tutte sigle (ormai ai margini) della vecchia socialdemocrazia.

Una caduta simile è avvenuta al Partito Socialista Francese alle ultime elezioni, il 23 aprile 2017, dove ha raggiunto la percentuale minima del 6%. Il tutto aggravato dal fatto che fosse il partito del Presidente uscente (Hollande), e fosse uno dei pilastri della Repubblica francese: il partito di Mitterand, un partito che aveva avuto la maggioranza in Parlamento in ben 4 occasioni (1981, 1988, 1997 e 2012), è di fatto sparito dai radar, subendo anche la scissione della fazione di Hamon (il candidato presidenziale del 2017) che ha fondato “Génération-s”.

Queste cadute rovinose hanno dei notevoli punti di contatto: si tratta di due partiti “storici” (nel caso del PASOK egemone per numerosi anni), quasi sempiterni ai vertici (per i socialisti francesi l’unica eccezione è il 2002, dove non raggiunse il ballottaggio), e che nel giro di pochissimi anni hanno registrato un calo terribile nei consensi fino alla marginalità politica.

Alla caduta di queste formazioni ha corrisposto tuttavia l’ascesa di altre “sinistre”. Non più partiti di massa, ma partiti pigliatutto (Syriza) e addirittura personali (En Marche!), caratterizzati da leadership molto più forti, approcci differenti ed una immagine svecchiata. Tuttavia, non si tratta di un semplice avvicendamento: mentre Syriza, in piena crisi del debito greco, si è fatta strada con idee “radicali” e parzialmente “euroscettiche” (fino ad un certo punto), puntando su una sinistra che si impossessasse di temi quali l’ecologismo, la lotta alla globalizzazione e soluzioni “popolari”, Macron ha giocato la sua carta su un “centrismo” moderato, presunto “né di destra né di sinistra”, simil-tecnocratico ma di fatto molto più in linea con le idee dei socialisti.

C’è molta continuità tra questi nuovi modelli e le vecchie sinistre, ma anche molte novità – gli stessi motivi per i quali sembra lecito parlare di “avvicendamento”.In questi paesi non è “morta la sinistra”, ma una sua forma sicuramente non più rappresentativa dei tempi e degli umori popolari.

L’AGONIA NELL’EST EUROPEO E L’ASCESA DEI CONSERVATORI

Anche negli Stati dell’Europa orientale, dalla recente tradizione pluralista e senza partiti “storici”, le sinistre hanno conosciuto pesanti sconfitte, a cui hanno fatto da contraltare domini sempre più incontrastati di partiti conservatori.

Più vicini a noi temporalmente, l’ultimo crollo lo rileviamo in Repubblica Ceca. Qui, alle ultime elezioni nel 2017, il Partito Social-Democratico Ceco ha ottenuto solo il 7%, divenendo il sesto partito del paese (persino dietro ai comunisti) dopo che, nelle precedenti elezioni del 2013, era stato incoronato come primo partito col 20% dei voti (nelle elezioni del 2010 il 22%, in quelle del 2006 il 32%). Un crollo che non solo ha escluso la sinistra da qualsiasi possibilità di partecipare al governo, ma ha permesso l’ascesa del partito personale “ANO” di Andrej Babis, imprenditore e uomo d’affari di ispirazione liberal-popolare ma con forti venature “populiste” (secondo i suoi detrattori).

Peggiore la situazione delle sinistre in Ungheria, dove ormai da qualche anno si assiste ad una schiacciante egemonia della destra conservatrice. L’Ungheria, fino al 2010, è stata governata dal Partito Socialista (MSZP), forte di un 43% alle elezioni del 2006. Ma da quell’anno, con l’ascesa incontrastabile di Fidesz e del suo leader, Viktor Orban, il partito ha perso enormemente terreno: 19% nel 2010, e lieve miglioramento (25%) nel 2014, grazie alla lista comune con altri 5 formazioni liberali e di sinistra.

Ma con un Orban che viaggia abbondantemente oltre il 40% e Jobbik, partito ultra-nazionalista ed euroscettico, ormai secondo partito con quasi il 20%. Tra qualche mese (aprile o maggio), si svolgeranno le nuove elezioni parlamentari in Ungheria, e i sondaggi finora aggravano ulteriormente il trend dei socialisti: l’MSZP ha una media di appena il 10%, lontanissimo da qualsiasi possibilità di governare.

La Polonia, infine, è lo Stato dove le sinistre sono di fatto state annientate – sono diventate extraparlamentari. Paese dominato da ormai un decennio da partiti di centro, liberali ed europeisti (“Piattaforma civica”) e della destra nazionalista ed euroscettica (“Legge e Giustizia”), l’ultimo governo della sinistra (2001-2005) ha segnato anche l’inizio del crollo dell’“Alleanza Democratica di Sinistra”. Benché questo partito abbia conseguito risultati mediocri ma abbia sempre raggiunto il Parlamento (11% nel 2005, 13% nel 2007 all’interno dell’alleanza “Democratici e di Sinistra”, 8% nel 2011), alle ultime elezioni, nel 2015, non è riuscito in questo che, in teoria, era l’obiettivo minimo.

In una coalizione che raggruppava un gran numero di formazioni di sinistra (“Sinistra Unita”) si è fermata al 7%, inferiore rispetto alla soglia dell’8% per le coalizioni. E da quasi tre anni la Polonia ha conosciuto un’intensa virata a destra, con la maggioranza ottenuta dal partito conservatore “Legge e Giustizia”.

La grande perdita di consenso dei partiti di sinistra nell’Europa orientale ha cause molto più peculiari rispetto ad altre regioni europee. Oltre ad una tradizione di sinistra “europea” molto recente e non ben salda, la crisi dell’UE ha dato impeto ai partiti conservatori, nazionalisti e tradizionalisti, facendo leva sui sempre vivi sentimenti nazionali. Un fattore che, se è vero che si è manifestato anche in altri Stati europei, in queste terre ha avuto un effetto più forte. Le sinistre esteuropee, in stragrande maggioranza liberali ed europeiste (non stiamo qui ovviamente includendo i partiti comunisti), si sono viste prosciugate di consensi e incapaci di reagire.

STAGNAZIONE E PERDITA DI CONSENSI NELL’EUROPA CENTRALE

Anche negli Stati della Mitteleuropa le ultime elezioni hanno confermato un calo di consenso nelle formazioni di sinistra, senza tuttavia mostrare veri e propri crolli. In contemporanea si sono registrate forti ascese sia della destra nazionalista anti-sistema sia di formazioni centriste, popolari e conservatrici.

Le ultime elezioni in ordine temporale hanno confermato questo trend. In Austria, il 15 ottobre scorso, il Partito Social-Democratico Austriaco (SPÖ) ha raggiunto il 27%. Non è affatto un cattivo risultato, visto che è addirittura l’1% in più che nel 2013 (dove, da primo partito, aveva poi dato vita al governo Faymann). Ma nel 2017, tuttavia, l’SPÖ si è trovato di fatto sconfitto di fronte all’avanzata incontrastata dell’ÖVP, partito cristiano-democratico e conservatore, balzato dal 24 al 31%, e dell’FPÖ, nazionalista ed euroscettico, passato dal 20 al 26%. Un fronte marcatamente di destra, con accenti cosiddetti “populisti” e radicalmente opposti alle istanze dell’SPÖ. Gli austriaci, in sintesi, pur mantenendo costanti i consensi a sinistra, che non ha più potuto partecipare alla formazione di un governo, hanno manifestato una netta maggioranza conservatrice.

Poco prima, in Germania, nel cuore del sistema comunitario europeo, abbiamo assistito ad una riconferma dell’egemonia centrista della CDU. In questo caso non si è trattata di una sconfitta per le sinistre: l’SPD è calato dal 25 (2013) al 20% (che è comunque la percentuale più bassa dal 1933), mentre Die Linke è crescita dall’8,6 al 9%. La stessa SPD infatti sta negoziando per partecipare nuovamente alla prossima Grosse Koalition, come forza di minoranza. Ma si tratta di un risultato che di certo non può accontentare i socialdemocratici tedeschi, che vedono nel frattempo l’impressionante crescita della destra euroscettica e nazionalista di Alternative für Deutschland, giunta al 12,6%.

Nella Repubblica Federale Tedesca, più che ad un vero e proprio calo, si è vista infatti l’impasse storica nella quale ricade la socialdemocrazia mitteleuropea: in passato partito maggioritario di governo, è ormai sempre costretta ad entrare in una coalizione quasi come “stampella” – e il difficile protrarsi degli attuali negoziati con la CDU mostra una certa insofferenza della sinistra verso questa situazione. Nemmeno leader da cui ci si aspettava un cambio di marcia, come Schultz, si sono mostrati capaci di invertire questa condizione di netta inferiorità, aggravata dall’impressione che la sinistra tradizionale sia rimasta indietro coi programmi e con le aspettative popolari.

Situazione ancora peggiore per l’altro maggiore Stato dell’Europa centrale passato attraverso le elezioni nel 2017: l’Olanda. Anche qui, a fronte di un continuo dominio del sostanziale centrismo del VVD di Mark Rutte, primo partito col 21% (nonostante un crollo di 8 punti percentuali), i partiti della sinistra si sono ridotti al lumicino. Il Partito Laburista, al governo per molti anni nella storia olandese, è crollato al 5,7% dal precedente 25% – da 2 milioni e 300 mila voti, a meno di 600 mila.

Stabile invece il Partito Socialista, al 9%, una formazione tuttavia di ben diversa collocazione ideologica: non è un partito “storico” nel solco della tradizione socialdemocratica, bensì un partito nato nel 1994 dal vecchio Partito Comunista, caratterizzato tutt’oggi dall’opposizione al globalismo e da un certo euroscetticismo. Anche qui bisogna rilevare l’avanzata della destra euroscettica, in questo caso il PVV di Geert Wilders, passato dal 10% del 2012 al 13% del 2017 (nonostante non sia un risultato eccezionale, rimane pur sempre il secondo partito del paese).

Non si può dunque parlare nell’Europa centrale di “pasokizzazione” per i partiti di sinistra, visto dei trend (a parte in Olanda) essenzialmente stabili e continuativi, mentre nel panorama politico non si rilevano nuove forze capaci di soppiantarli – non ci sono movimenti come quelli di Macron, ad esempio. È lo spostamento di massa di tutto il resto dell’elettorato verso “destra” (principalmente non destre radicali o tradizionaliste ma destre popolari e conservatrici) ad aver catalizzato anche qui la crisi delle sinistre.

EUROPA DEL NORD E ROCCAFORTI SOCIALDEMOCRATICHE

Com’è noto, gli Stati del Nord Europa hanno una lunghissima tradizione di sinistra, quasi un fattore culturale. In queste terre, nonostante gli evidenti fattori di crisi all’interno dell’UE e un complessivo peggioramento di alcuni indicatori sociali (per segnalare il caso più noto, l’aumento esponenziale degli stupri in Svezia nell’ultimo decennio), i partiti di sinistra sono ancora formazioni molto forti e in alcuni Stati ancora saldamente al comando.

La Svezia è il più tradizionale esempio di paese a dominio socialdemocratico. Il Partito Social-Democratico Svedese, attualmente al governo e primo partito del paese, ha governato per ampissimi periodi del XX secolo: ininterrottamente dal 1932 al 1976, e poi ancora per diverse legislatura fino al giorno d’oggi. Complice un sistema sociale che deve molto a concetti tradizionalmente legati alla socialdemocrazia europea, dal welfare alla letteraria (ma con base di verità) “Legge di Jante”, e un sistema partitico estremamente tradizionale e cristallizzato, i socialdemocratici si sono mantenuti a galla fino ad ora.

Tuttavia, bisogna registrare un costante calo dei consensi nell’ultimo decennio: dal 45% del 1994, il partito ha avuto un costante calo fino al 31% del 2014. E le prossime elezioni, in programma per il 9 settembre 2018, danno attualmente il Partito Social-Democratico nettamente sotto il 30% (tra il 28 e il 25), insediato dai centristi del Partito Moderato, ma senza nessuna formazione “anti-sistema” che potrebbe anche solo lontanamente rappresentare un pericolo.

Diversa è però l’attuale situazione della Finlandia. Qui i socialdemocratici sono sempre stati tra i primi partiti ma mai forza interamente egemonica. Sebbene dal 1982 al 2012, alla Presidenza del paese c’è sempre stato un socialdemocratico, in quasi tutti i governi degli ultimi anni la sinistra ha partecipato come forza di minoranza.

Nel 2015, le cose sono cambiate: con solo il 16% dei voti (peggior risultato in tutta la lunga storia del partito, fondato nel 1899), i socialdemocratici sono usciti dal grande circuito della politica. Mentre formazioni centriste come il Centro e Alleanza Nazionale (primo partito alle elezioni del 2011) sono tornate alla ribalta, bisogna registrare l’exploit del partito nazionalista ed euroscettico “Veri Finlandesi”: dal 4% nel 2007, al 19% nel 2011 fino al 17,7% nel 2015 e alla partecipazione nella formazione del governo Sipilä.

Situazioni invece, ancora, di predominanza socialdemocratica in Norvegia (primo partito ma non al governo) e Danimarca, dove ancora il Partito Socialdemocratico è al governo. Da notare che anche qui i risultati elettorali delle sinistre hanno registrato delle flessioni negli ultimi anni, mentre notevole è l’aumento della destra euroscettica e “populista”: il Partito del Popolo Danese (fondato nel 1995), è balzato dal 12% del 2012 al 21% nel 2015, mentre il Partito del Progresso Norvegese, seppur in netto calo nelle ultime elezioni (dal 23% del 2009 al 15% nel 2015) è una forza di governo dal 2013 ad oggi.

L’Europa Settentrionale, come da tradizione, si conferma roccaforte per la sinistra socialdemocratica – sicuramente l’area geografica che meno ha subito il riflusso conservatore e la “pasokizzazione”. Con meno (per ora) preoccupazioni sociali rispetto ad altre aree europee, dei legami con Bruxelles molto diversi (solo la Finlandia, tra i paesi nominati, ha come moneta l’euro), e con tradizioni politico-culturali antichissime, qui i cambiamenti ideologici e partitici avvertibili in quasi tutti gli Stati hanno attecchito molto poco, risultando in una sostanziale perorazione dello status quo.

(di Leonardo Olivetti)