“L’economia nello stato totalitario fascista”: un libro innovativo

Il volume curato da Antonio Messina dal titolo L’economia nello stato totalitario fascista può a ragione essere considerato un libro importante. Ciò si deve almeno a due motivi: in primis, il merito di aver originato un nuovo impulso agli studi sul fascismo con un respiro non solo nazionale ma internazionale; in secundis, la capacità mostrata da tutti i coautori di mostrare, senza infingimenti, la coerenza costruttiva, presente in ogni aspetto del proprio declinarsi politico, della sua ideologia.

Gli autori dei cinque saggi che compongono l’opera hanno opportunamente preso le debite distanze da quanti, per decenni, hanno rilevato aprioristicamente le immature velleità, le insufficienze, la vuota e pomposa retorica dei progetti di edificazione nazionale in epoca fascista.

Portavoce di questo assunto è stato senza dubbio Denis Mack Smith, responsabile, secondo le parole di A. James Gregor, di aver presentato il fenomeno storico del fascismo «sotto forma di briganti e buffoni», privi di idee e cultura, violenti, soverchiatori, il cui comportamento sarebbe stato «semplice conseguenza di un impulso irrazionale» (p. 9).

Il curatore del volume ha quindi scelto di concentrare l’indagine sullo studio, per l’appunto, delle strategie economiche del Ventennio, valutandole non soltanto come conseguenza dell’apparato dottrinario fondante l’ideologia di regime, ma anche come suo elemento qualificante, e dunque come suo punto di partenza.

I saggi centrali dell’opera, del curatore stesso, di Francesco Carlesi e di Sergio Fernández Riquelme, affrontano i temi della dittatura dello sviluppo e del corporativismo come elementi fondanti dello sviluppo e dello stato sociale.

L’Italia giolittiana non aveva propugnato una politica economica votata allo sviluppo nazionale, avendo lasciato che il decollo industriale fosse per lo più condizionato dall’intervento dei grandi interessi privati di natura finanziaria o industriale.

Messina, quindi, individua nella dottrina nazionalista di Enrico Corradini, elaborata nel 1911, una carica innovativa decisiva: l’Italia si trovava in una grave condizione di subordinazione economica e dipendenza morale rispetto alle altre nazioni da cinquant’anni a quella parte; riscattarsi da tale sudditanza era in quel momento una priorità assoluta (p. 18).

A ciò si accostava Alfredo Rocco, secondo il quale, considerata la scarsità di materie prime nel territorio italiano, e l’obbligo di competere con nazioni più avanzate, in acerba critica del socialismo, asseverava che l’Italia era una «Nazione il cui reale problema non consisteva nella distribuzione, ma nella produzione della ricchezza» (p. 19).

L’Italia, pertanto, doveva puntare alla propria produzione interna prima di qualsiasi altra cosa. Per le condizioni in cui versava ai quei tempi, liberismo e liberoscambismo erano un danno, un pericolo. Perché tutto ciò si realizzasse, bisognava inculcare nei lavoratori un’etica del massiccio sviluppo economico, e secondo Messina «fu proprio nel fango delle trincee che si realizzò quella coesione sociale tanto agognata dai rivoluzionari radicali» se «proletari e borghesi si ritrovarono a combattere per un’entità collettiva destinata a trascendere le classi e imporsi come mito preponderante della prima metà del XX secolo: l’idea della comunità nazionale» (p. 22).

Messina giustamente indica nel discorso di piazza San Sepolcro la prima enunciazione sistematica del cosiddetto «socialismo nazionale». In esso convivevano tanto gli asserti del vecchio socialismo rivoluzionario, quanto l’obiettivo di affrancare l’Italia dall’«imperialismo straniero», ossia «dall’egemonia delle attuali potenze plutocratiche», indi, assicurare per essa il «massimo di produzione» il «massimo di benessere» (p. 24).

Con la trasformazione dei Fasci di Combattimento nel Partito Nazionale Fascista, si sarebbe assistito all’«istituzione delle corporazioni sia “come espressione della solidarietà nazionale”, che come “mezzo di sviluppo della produzione”» (p. 25).

Qui, Messina dimostra che Mussolini e i suoi uomini disponevano – e come! – di un corpus ideologico da applicarsi all’economia solido e coerente: un’alternativa al liberalismo e al marxismo, comunemente ricordata come terza via, ovvero, secondo Carlesi, «la costruzione di un sistema alternativo sia all’individualismo liberale, caratterizzato dal predominio del mercato, che al comunismo, incentrato sul materialismo storico e sull’idea di lotta di classe» (pp. 151-152).

Per questo, era «illogico sostenere che il pensiero fascista abbia attraversato una fase liberista, per poi approdare ad una fase dirigista in nome di un mero pragmatismo senza idee» (p. 27). Per far ciò, era necessario eliminare la distinzione liberale fra vita pubblica e vita privata, punctum dolens, questo, di tutto il dibattito sino a questo momento intessuto sulla dimensione politica assunta dal fascismo nel suo esplicarsi.

«Nessuna traccia di atomismo, diritti umani o progresso, ma concezione sacrale della patria, del combattimento, del lavoro»: ecco, qui, stupendamente riassunta, l’essenza del fascismo secondo la sintesi fatta nel 1932 da Marco Tarchi, entro le cui determinazioni è possibile individuare, sulla base dell’esegesi di Giovanni Gentile, una promozione dell’idea di collaborazione – non già, dunque, di lotta! – di classe mazziniana (pp.152-153).

È altamente suggestivo ricordare che l’idea di terza via, e dunque di un rammodernato concetto di “corporazione” è frutto di quella peculiare contingenza storica, da taluni identificata come fase finale del Risorgimento, in cui si assiste ad una originalissima incarnazione della poesia nell’azione politica. È il caso della «Carta del Carnaro», definita da Riquelme, forse con bonaria ingenuità, «curiosa utopía de restauración gremial-medieval» (p. 208), ma dove il lavoro, che il sistema corporativo organizza, non configura come diritto, ma come disciplina.

Cosa implicò, sotto un punto di vista prettamente economico, la «nazionalizzazione integrale della vita umana»? Implicò, secondo le parole dello stesso Mussolini, la «collaborazione fra tutti gli elementi della produzione», e grazie a questo, dal 1922 al 1929, l’Italia ebbi tassi di crescita del prodotto interno lordo mai immaginati prima (pp. 30-31).

La celebre campagna per quota novanta, la promulgazione della Carta del Lavoro, e la battaglia del grano, ebbero un solo obiettivo: «rendere la nazione il più autosufficiente possibile» (p. 35), non facendo dipendere la produzione italiana esclusivamente dalle importazioni dall’estero.

Allo scopo, bisognava creare nuove aree arabili: la bonifica integrale, dunque, si rendeva strettamente necessaria. Siamo dinanzi alla realizzazione materiale dei principi ispiratori non soltanto della Carta del Lavoro, ma anche di tutta la legislazione antecedente e precedente in tema di lavoro e previdenza sociale: secondo le parole di Carlesi «anti-individualismo, funzione sociale del lavoro e delle proprietà, primato della nazione e del senso della comunità» (p. 164).

È dunque da sostenersi che l’inizio del dirigismo sul economia vera e proprio coincida con la crisi finanziaria del 1929? Solo in parte. Secondo Messina, la crisi «ebbe come effetto quello di accelerare le ambizioni totalitarie del fascismo, la riduzione della differenza tra pubblico e privato, l’allargamento delle sfere d’intervento da parte di uno Stato che aspirava a controllare ogni aspetto della vita della nazione» (p. 39).

La crisi non fu, dunque, una stringente contingenza, ma l’occasione propizia per attuare un obiettivo fondativo dell’ideologia del fascismo, né, secondo Messina, la creazione dell’IRI, le politiche di Beneduce, e la fondamentale legge bancaria del 1936, che, come opportunamente sottolineato da Carlesi, separava le banche di investimento da quelle commerciali, allontanando la concezione del credito italiana dal modello tedesco, si spiegano unicamente come conseguenza involontaria della crisi (pp. 40-41).

Dopo un decennio di notevoli frizioni fra partito e sindacati, la crisi del 1929 diede definitivo impulso, dopo una lunga gestazione, a un nuovo concetto di divisione del lavoro concepita in senso corporativo finalizzata non solo ad allontanare i lavoratori, ora inquadrati entro «gruppi sociali considerati globalmente», dagli arbitrî di Confindustria, ma, avvicinandosi al pensiero keynesiano, ottenere per l’Italia, fatto assolutamente innovativo, condizioni prossime alla piena occupazione (pp. 180 ss.).

Solo ed esclusivamente in questi termini, la corporazione configurava, secondo le parole di Riquelme, «como un elemento functional de unificación político-social, subordinada totalmente a la autoridad del Estado, y reflejo de la movilización nacionalista».

Tutte queste misure erano, dunque, parte di un programma originario ben preciso, esattamente come la ricerca di nuove fonti di materie prime, uno dei fattori che condusse alla guerra d’Etiopia. Non casualmente, due mesi prima del proclama con cui Badoglio annunciava la presa di Addis Abeba, Mussolini enunciò i punti cardine per lo sviluppo autarchico dell’economia italiana, primo passo per la liberazione dalle dipendenze economiche estere.

La sconfitta in guerra, dunque, fu causata non da scelte miopi o corrive, ma dalla cronica scarsità di materie prime per lo sviluppo industriale, alla quale la politica coloniale non aveva potuto ovviare (p. 49). È anche per questa ragione che, come dice giustamente Messina «l’unica possibilità di vittoria per le potenze dell’Asse sarebbe stata quella di concludere rapidamente il conflitto nei primi anni di guerra, quando la tecnica del Blitzkrieg si era mostrata vincente» (p. 53).

Da queste premesse, Messina indugia sul dibattito storiografico incentrato sul concetto portante del suo saggio, la dittatura dello sviluppo. Ne emerge una stretta adesione del pensiero di Messina con quello di A. James Gregor, secondo il quale il fascismo è frutto di una matura presa di coscienza, ossia un «adattamento della dottrina marxista alle nuove consapevolezze storiche» (p. 59), e considerarsi, in forza di ciò, come «precursore delle “dittature dello sviluppo” che hanno costellato il XX secolo: stalinismo, maoismo, castrismo, e diversi regimi postcoloniali dell’Africa e dell’Asia, che nel tentativo di portare i loro paesi fuori dall’arretratezza economica, hanno tutti inconsapevolmente ripercorso il paradigma fascista» (p. 60).

Il punto cardine dell’interpretazione di Messina e Carlesi, tuttavia, è da ravvisarsi nel commento della posizione assunta, in merito, dallo studioso argentino Marcelo Gullo. In presenza di Potenze economiche che hanno fondato la propria esistenza in quanto tali non solo su rigide politiche di protezionismo iniziali, ma anche sullo sfruttamento delle nazioni più deboli, è conditio sine qua non per il loro riscatto portare avanti una insubordinazione ideologica quale «prima tappa di ogni processo di emancipazione riuscito» (p. 76).

Il saggio, in lingua inglese, di Maria Sophia Quine, intitolato From Malthus to Mussolini è consacrato a tre questioni fra loro connesse: le politiche demografiche fasciste, il suo stato di guerra e di benessere, e le condizioni della classe operata femminile durante il Ventennio.

Passando in rassegna la storiografia, italiana ed anglosassone, incentrata sul tema, la Quine ipotizza la veridicità della tesi per cui la politica fascista di welfare sia stata un mezzo di controllo sociale a suo tempo già collaudato nella Germania di Bismarck (pp. 91-92). Lo scopo sembra scontato: sottrarre la classe operaia dall’influenza ideologica del socialismo, e, in generale, del marxismo (p. 94), assunto che, pure, la studiosa non esita a criticare aspramente. Predilige, piuttosto, procede ad una disamina di alcuni punti oscuri delle politiche sociali del Ventennio.

Nel farlo, sceglie di concentrarsi sulle condizioni dei lavoratori di minore età e di sesso femminile – con riferimento al controverso caso delle risaie nella provincia di Vercelli – in quel periodo, sulla legislazione lavorativa in generale successiva all’emanazione della Carta del Lavoro e sul ruolo avuto dall’Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell’Infanzia, per la creazione di un «framework for post-war social policy and programmes» (p.147).

Nel discuterne, la Quine conviene con Messina e Carlesi nel ritenere la crisi del 1929 decisiva per l’accentuazione del connotato totalitario del regime. Riconoscendo ogni merito ai fautori materiali di questo processo, indica, utilmente, che significativi aiuti finanziari mirati a debellare la malaria e la tubercolosi provennero anche dalla Rockefeller Foundation e dalla Società delle Nazioni – dato, questo, opportunamente documentato, e che Carlesi giustifica, invero, quale priorità del momento storico immediatamente successivo alla Marcia su Roma (p. 158).

Ciò le dà modo di lanciare una discreta ma ferma critica nei riguardi di questo peculiare welfare state, presto tramutatosi in warfare state, affermando che una delle sue principali caratteristiche era «its reliance upon private sources of revenue and its haphazard and chaotic presence throughout the nation» (p. 147).

La parte più significativa dello studio della Quine inquadra le politiche demografiche del fascismo, intese a privilegiare la “qualità” e la “quantità” nelle future generazioni, e generalmente come «part of a comprehensive, systematic, consistent and coherent programme of social reclamation and socio-biological engineering» (p. 96).

Il motivo conduttore da transustanziare nel corso della sua indagine riguardava l’influenza esercitata dalle teorie di Malthus sulle scelte in politica demografica del Duce. L’esito, evitabile, di questo proposito è quello di riportare molti esempi, rigorosamente giustificati, utili a suffragare questa teoria, ma, in maniera tale da non permettere al lettore di coglierne facilmente la sostanza.

La studiosa, inoltre, alternando giudizi costruttivi su questi obiettivi di massima si lascia troppo spesso tentare dall’inclinazione di insistere, quasi ammiccando, sul risvolto razziale delle politiche demografiche condotte dal regime. Così, l’approccio metodologico di Corrado Gini, comunque ben analizzato, sarebbe stato influenzato da «parameters set out by the science of biometrics», in ogni caso, giustificato dall’intenzione di lanciare un «eugenically-inspired programme of biological politics» (p. 95), opinione, questa, che avrebbe forse bisogno di maggiori riscontri.

Improntato a un approccio più disteso e circostanziato, è il saggio, breve ed agile, di Gian Luca Podestà sulle condizioni economico-demografiche dell’Africa Orientale Italiana e della Libia. L’indagine è incentrata sulla questione della maggiore o minore dipendenza che il mondo coloniale italiano, e sulla necessità se renderlo oppure no come «trasposizione nei domini di tutti gli elementi produttivi della madrepatria […] aborrendo con ciò la colonizzazione di matrice capitalistica volta esclusivamente a beneficio di un ristretto ceto di privilegiati» (p. 215).

Podestà, dunque, sceglie di proseguire la sua indagine per questa strada, riuscendo, con una certa efficacia, a dimostrare, che il colonialismo italiano, e i suoi esiti, sono tutt’altro che ascrivibili ad un “colonialismo straccione” o parassitario a cattiva imitazione di quello di matrice anglo-francese.

Podestà, quindi, procede ad un’analisi della normativa sulla divisione del lavoro applicata in Africa Orientale Italiana prima e dopo la proclamazione dell’Impero, mettendone in luce non i numerosi dispositivi giuridici utili per la sua stretta osservanza, ma anche le grandi agevolazioni che offrivano per la promozione di una classe di piccoli e medi imprenditori africani, in Africa Orientale Italiana, e alla progressiva urbanizzazione degli strati più poveri della società in Libia specialmente dopo la guerra d’Etiopia.

L’analisi condotta nella sua interezza è assolutamente scevra da certi effetti depauperanti della facile divulgazione. Unisce nella sua tessitura il pregio di una sintesi pregnante e i segni di una ricerca scientifica rigorosa, ma non acribica. Riporta dati numerici per un loro opportuno, agevole utilizzo: non già per sterile ostentazione tecnica, ma unicamente a suffragio di quanto trattato. Offre lumi su aspetti spesso scientemente trascurati del tema sviluppato, servendosi, per lo scopo, di uno stile di scrittura piacevole sotto ogni riguardo.

Il pubblico di lettori a cui l’opera si indirizza è di specialisti o di appassionati dell’argomento, ed è ad esso che maggiormente si raccomanda, specialmente per fini di approfondimento personale o di ricerca scientifica.

(di Fabrizio Rudi)