Un anno di Trump: dalla vittoria alle elezioni all’impasse

La notte tra il 7 e l’8 novembre del 2016, nelle elezioni presidenziali americane si materializzò un risultato destinato a lasciare il segno: contro tutti i pronostici e i sondaggi, contro tutto l’establishment e la partitocrazia, contro i poteri finanziari e i media, Donald Trump vinse le elezioni davanti agli occhi scioccati del mondo. Fu una notte che mandò in crisi repentinamente le millantate sicurezze dell’Occidente, dell’universo liberal e della sinistra. Furono “le 10 ore che sconvolsero il mondo occidentale”, parafrasando la famosa opera di John Reed.

Ad un anno di distanza, tuttavia, il clima sembra essere incredibilmente mutato: l’entusiasmo verso Trump che una grossa fetta dell’opinione pubblica antiglobalista e nazionalista aveva verso di lui si è smorzato. Di tutto il roboante e rivoluzionario programma, di tutte le grandi promesse scritte su Twitter, il Presidente Trump ha finora realizzato ben poco – ed un “poco” che in alcuni punti contrasta con parti del suo programma!

Difficile, per ora, inquadrare il fenomeno Trump, che, per le sue modalità di ascesa e consenso aveva richiamato ad altre esperienze “populiste” americane: da quella di Wallace del 1968 a quella, ben più significativa, di Ross Perot nel 1992. Ma The Donald è un fenomeno a sé stante, appartenente ad un’epoca di disintermediazione e di globalizzazione, un’epoca di dominio della rete e di trapasso delle vecchie strutture politiche – tutte questioni molto presenti nella campagna elettorale del tycoon.
Eppure, il “trapasso” storico-culturale che una simile elezione avrebbe dovuto annunciare sembra non essere avvenuto (almeno per ora), e di Trump ci rimane un’immagine in chiaroscuro il cui operato mostra finora più tendenze “scure” che altro.

Dal gennaio 2017 l’economia americana sta dando forti segnali di ripresa ed espansione, con l’aumento di posti di lavoro e una generale crescita nella produzione. Ma viene da chiedersi quanto sia propriamente merito di Trump e quanto sia invece il frutto di un’onda lunga proveniente dagli anni precedenti.

Per quanto riguarda i punti strettamente inseriti nella sua rivoluzione economica, finora si è visto ben poco: il “più grande taglio di tasse” è ancora fermo in fase di discussione, la rinegoziazione dei rapporti commerciali nella NAFTA e con la Cina non sono ancora avvenuti e le manovre protezioniste hanno visto solo una flebile e parziale luce. Le promesse di deregulation sono ancora là da venire, per un ricetta, quella trumpiana, che sembra più una riproposizione della Reaganomics piuttosto che qualcosa di veramente nuovo.

Per ora, l’unica scelta economica radicale portata integralmente a termine è stata l’uscita dagli Accordi di Parigi e il complementare rilancio dell’industria del carbone – con le forti critiche che ha generato e il legittimo dubbio sulle reali richieste che il mercato internazionale ha di carbone. E nel frattempo, tutte queste manovre, manovrine e programmi sono schiacciati da un immenso debito pubblico (circa il 100% del PIL, per 20.000 miliardi di dollari), mai così alto nella storia americana – e la Presidenza Trump non pare aver proposto per ora precisi programmi su come affrontarlo. Un enorme macigno che, qualunque possano essere i risultati dell’economia, rischia sempre di poter franare ed arrivare a valle, scatenando un terremoto economico di imprevedibili proporzioni.

Molte altre promesse di Donald Trump, in particolare in materia sociale, sono state bloccate dallo stesso establishment americano: la riforma sanitaria da lui promessa per sostituire l’Obamacare bocciata dal Congresso, il Muslim Ban bloccato più volte dai tribunali nazionali. Due dei cavalli di battaglia più popolari tra i fedelissimi del tycoon rischiano di non poter mai entrare in vigore, mentre, al contrario, la battaglia contro l’immigrazione illegale e l’espulsione dei clandestini stanno procedendo senza intoppo e con ritmi molto decisi (un aumento del 35% degli arresti di clandestini e una pratica di deportazione ed espulsione molto più rapida).

In politica estera, l’amministrazione Trump si è mostrata in linea con le passate amministrazioni – se non più confusa e contraddittoria. Se è pur vero che le strategie di potenza degli Stati tendono a mantenersi costanti pur mutando i regimi, certo è che, con un Trump che aveva promesso quasi di ridisegnare la mappa delle relazioni mondiali, le cose sono ben poco mutate. I problemi di Washington rimangono gli stessi, gli alleati anche. Si può aggiungere, anzi, che Donald Trump ha arretrato di alcuni passi rispetto alla linea obamiana, in particolare nella volontà (ancora non del tutto chiara) di ritirarsi dagli Accordi sul nucleare iraniano e nel peggiorare le relazioni con Cuba (seppur non ritornando alla rottura delle relazioni).

I pochi tentativi di scossa finora registrati sono in un certo approccio più pragmatico e meno “idealista” riguardo alla questione dei diritti umani, nella cessazione del programma della CIA di aiuto ai terroristi in Siria e nel tentativo (probabilmente sincero, ma finora bloccato) di miglioramento delle relazioni con la Russia.

Proprio i rapporti con Mosca dimostrano quanto Trump abbia poteri davvero limitati: le ultime sanzioni antirusse sono state votate dal Senato con una maggioranza di 98 a 2, nonostante le critiche dirette rivolte proprio dal Presidente – ed in questo caso Trump non può concretamente esercitare il veto, per il quale il Congresso avrebbe comunque vinto con un plebiscito.

La votazione sulle sanzioni alla Russia ben esemplifica la situazione politica attuale: un Trump non così rivoluzionario, certamente ridimensionato, ma che viene bloccato anche per quel poco di “innovativo” che mantiene da un establishment politico congressuale e giudiziario ancorato a vecchie dottrine. Un establishment che ha dalla sua una maggioranza numerica schiacciante, il consenso degli alleati europei e dell’esercito. Un establishment ideologicamente liberal o neocon, dove queste due dottrine tendono spesso a confondersi ed allearsi.

Se qualcuno, dopo la vittoria repubblicana nelle due camere, pensava ad una Presidenza Trump “forte”, si è sbagliato di grosso: a partire dallo scandalo del Russiagate fino ad arrivare alla netta ostilità del suo stesso Partito, il nuovo Presidente trova di fronte a sé un ambiente politico ostile e molto restio a dargli fiducia – anche tra coloro che dovrebbero, in teoria, essergli ideologicamente vicini. Questo è sì un retaggio della campagna elettorale e degli avversari nati in quel periodo, ma anche dell’incapacità della nuova amministrazione di esercitare un consenso bipartisan e di unificare il campo repubblicano.

Eppure, nonostante tutto, dare una configurazione o una fisionomia a The Donald non è ancora possibile: non si può certo dire che si sia trasformato in un neoconservatore – rimane ideologicamente più vicino a Bannon che a Podhoretz, e Tillerson è di ben altra risma rispetto a Rumsfeld o Powell. L’ostilità irriducibile di McCain e anche di George W. Bush lo dimostrano. Ma non è nemmeno il Trump anti-statale, anti-politico e anti-sistema che in molti sognavano, pur mantenendone spiccatamente le caratteristiche, soprattutto nella comunicazione.

Il Presidente Trump è un ibrido, un pastiche tra le diverse tendenze sue personali e della sua amministrazione, un miscuglio di indirizzi dai più anti-sistema ai più conservatori che erano già in fieri durante la campagna elettorale, che finora si è manifestato in una politica tendente all’impasse e alla ridotta capacità d’azione – spesso eclatante e non inquadrabile in una strategia generale.
Il tutto, infine, sigillato da continue necessità di compromessi per avere quel po’ di ossigeno per sopravvivere, spesso a scapito della coerenza o di disegni strategici chiari – il classico esempio è il bombardamento della Siria del 7 aprile, marchiana operazione di consenso politico interno in assenza di strategia.

(di Leonardo Olivetti)