Aggressione all’ambasciatore eritreo a Roma: il retroscena

Mercoledì scorso alcuni membri della comunità eritrea di Roma, muniti di bastoni chiodati, hanno aggredito, fuori al ristorante eritreo Massawa di via Montebello (zona Castro Pretorio), l’ambasciatore eritreo di Roma, Menghistu Pietros Fessahzion (67 anni, che ha riportato una ferita lieve alla mano) e un suo presunto collaboratore (che ha avuto le conseguenze fisiche più gravi ed è ricoverato all’ospedale Umberto I con prognosi riservata per trauma cranico e frattura allo zigomo).

La polizia ha arrestato un giovane di 34 anni. Sono ancora in corso le indagini per individuare gli altri complici, ma già si parla di atto di violenza politica. Le azioni di violenza sono inaccettabili e deplorevoli in una società civile e democratica, anche quando sono contro degli esponenti di un regime tirannico e sanguinario come quello eritreo, che usa la violenza politica per esercitare il suo potere e dove a decidere sulla vita e sulla morte delle persone è il raìs Isaias Afewerki, al potere dal 1991, senza mai essere stato eletto e senza mai aver realizzato un’assemblea per promulgare la Costituzione.

Nonostante l’esasperazione e la frustazione di molti profughi eritrei contro la dittatura, da cui a migliaia ogni anno scappano dal loro paese, usare gli stessi metodi di violenza politica come opposizione sono intollerabili, anche perchè diventano di facile strumentalizzazione per le dittature stesse.

Invece è con l’informazione, con le campagne di sensibilizzazione e attraverso la solidarietà sociale tra i membri della comunità che si possono assestare duri colpi alle tirannie politiche, più dolorosi di una sprangata sul volto di Yemane Ghebreab. Ma chi è costui?

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Purtroppo i giornali italiani non dicono la verità dei fatti. Con molta probabilità l’obiettivo dell’aggressione non era l’ambasciatore eritreo, che è solo un dipendente statale, ma il suo presunto collaboratore di cui l’informazione ufficiale non rivela il nome.

Sarebbe proprio lui, infatti, il soggetto in questione. Ma perchè il suo nome è occultato? Ghebreab è il numero due di Isaias Afewerki, uno dei suoi uomini più fedeli, ed è molto operativo all’estero. È a capo dello Young PFDJ, l’organizzazione giovanile internazionale del partito del rais.

Questa raccoglie i nazionalisti eritrei pro-regime di tutto il mondo. Molti di loro sono parte di quella seconda e terza generazione di eritrei, nati dai genitori che hanno lasciato il paese durante la guerra d’indipendenza negli anni’70/80. Lo Young PFDJ organizza anche meeting ed eventi di propaganda, tra cui il Festival Eritreo annuale in Italia.

Yemane Ghebreab si trova a Roma infatti, proprio perchè il 1 Luglio si è svolto a Ciampino il Festival della Cultura Eritrea, in cui era presente anche il Ministro degli Esteri di Asmara Osman Saleh. Alcuni paesi europei come la Germania, l’Olanda e la Svizzera hanno posto il divieto agli eventi politici e sociali eritrei; al contrario l’Italia autorizza ogni anno il Festival, organizzato e finanziato dal regime coi fondi ricavati dalla tangente forzata del 2% che i membri della comunità eritrea sono, di fatto, costretti a pagare all’ambasciata per non avere ripercussioni burocratiche, come il divieto del rinnovo del passaporto (azione illegale nel nostro paese).

Questo dimostra come gli interessi economici italiani nel Corno d’Africa trasformino i diritti umani in carta straccia e di come sia vergognoso che le autorità italiane, che si dichiarono alfieri di tali diritti, permettano l’ingresso nel paese ai personaggi di rilievo del regime di Asmara.

Non è ammissibile che il governo italiano continui ad avere rapporti diplomatici con le dittature africane, non solo con l’Eritrea, ma anche con il Sudan, il Gambia e la Nigeria, paesi da cui provengono il 90% dei profughi che sbarcano sulle coste del Sud Italia.

Forse un primo passo fondamentale per fronteggiare la questione dell’immigrazione dei profughi è la rottura diplomatica ed economica con i paesi che non rispettano i diritti umani e civili e il divieto d’ingresso in Europa nei confronti degli esponenti istituzionali di tali paesi. E forse, se si fosse seguita questa politica, non avremmo avuto un giovane eritreo in carcere e il probabile “erede al trono d’Eritrea” con la testa fracassata in ospedale.

(di Dario Zumkeller)