Emmanuel Clinton e la rivolta delle élite

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E così, alla fine, l’Occidente è stato salvato dall’elezione di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi: sollievo a Bruxelles, un’eurozona in buona salute, rialzi nelle borse asiatiche.  Eppure era cosa talmente prevedibile. Dopo tutto, Macron è stato appoggiato dall’EU, la Regina della Borsa, e Barack Obama. Nonché da tutto l’establishment francese.

Si è trattato di un referendum sull’EU. E l’EU ha vinto nella sua attuale struttura. Naturalmente, anche la cyber-guerra doveva fare la sua bella parte. Nessuno conosce la reale origine dei MacronLeaks (una massa di mail della campagna elettorale di Macron, fatte filtrare all’ultimo minuto). Wikileaks ha comunque ritenuto autentici i documenti che ha avuto il tempo di controllare. Il che non ha certo impedito alla «galassia» Macron di accusare subito la Russia. Le Monde, un tempo un grandissimo giornale, ora appartenente a tre influenti banchieri di Macron, ha riportato fedelmente le denunce rivolte da quest’ultimo a RT e Sputnik in riferimento agli attacchi informatici e, più in generale, all’interferenza della Russia nelle elezioni francesi.

La russofobia di Macron nella sfera mediatica francese ha contagiato anche Liberation, il giornale che un tempo fu di Jean-Paul Sartre. Edouard de Rothschild, l’ex presidente della banca Rothschild&Cie, ha acquistato nel 2005 il 37% delle azioni di questo giornale. Tre anni più tardi, un allora sconosciuto Emmanuel Macron cominciò la sua ascesa nel settore delle fusioni e delle acquisizioni finanziarie, acquistandosi presto la reputazione di un «Mozart della finanza».

Dopo un perioduccio passato al Ministero del Tesoro, gli è stato confezionato il movimento En Marche! da un gruppo di influenti figure del mondo finanziario e radical-chic. E adesso è diventato presidente. Benvenuti alla porta girevole da alberghi in stile Moet&Chandon. Ci rivedremo sulle barricate, baby.

Nell’ultimo confronto televisivo con Marine Le Pen, Macron non si è fatto problemi di mostrare un’attitudine condiscendente e rude, guadagnando persino dei punticini extra affibbiando a «Marine» l’etichetta di una bugiarda nazionalista disinformata, corrotta, «piena di odio», che «contribuisce a far peggiorare la condizione orribile della Francia e a stimolare una guerra civile». Queste parole possono giocargli un brutto scherzo. Macron è obbligato (dai suoi reali padroni) a portare a termine la svendita della Francia, ad imporre rigorosi tagli agli stipendi (cosa che determinerà una crescita drammatica della disoccupazione) e a favorire la precarietà sociale per aumentare la competitività.

Il Cartello Finanziario loda l’idea di Macron di ridurre le imposte sui redditi d’impresa dal 33% al 25% (la media europea). Ma, soprattutto, Macron ha sdoganato la ricetta perfetta per uno scenario da «barricata»: severi tagli all’assistenza sanitaria, ai sussidi di disoccupazione e ai fondi regionali. Almeno 120.000 posti nel terziario verranno eliminati. Alcuni diritti lavorativi fondamentali verranno eliminati. Verrà imposta tramite decreto legislativo la «riforma» del Codice Lavorativo, osteggiata dal 67% dell’elettorato francese. Sull’Europa. La cosa più vicina alla verità detta da «Marine» durante la campagna è una sola: «La Francia verrà governata da una donna. O me o la signora Merkel». Macron è il nuovo Tony Blair o, in una variante più catastrofica, il nuovo Matteo Renzi.

Il vero gioco comincia ora. Solo quattro elettori su dieci hanno votato Macron. L’astensione ha raggiunto il 25%. Circa un terzo, se vengono presi in considerazione anche i voti annullati. E’ virtualmente impossibile per Macron avere una maggioranza parlamentare nelle successive elezioni.
La Francia ora è divisa in 5 fazioni, unite da veramente poco: En Marche! di Macron, Il National Front di Marine Le Pen, che verrà ricomposto e rafforzato, la Disobedient France di Melenchon, destinata a guidare la nuova sinistra, i Repubblicani o la tradizionale destra francese, che è malconcia ed ha un bisogno disperato di un nuovo leader dopo la figura di Francois Fillon, e i socialisti post-Hollande, che sono semplicemente a pezzi.

Uno shock orwelliano del «nuovo» Contrariamente a quanto si è percepito a livello globale, la questione maggiore di questa corsa presidenziale è stata non l’immigrazione, ma il profondo risentimento verso lo stato-nello-stato francese (polizia, magistratura, amministrazione), visto come oppressivo, corrotto ed anche violento.

Persino prima del voto, il filosofo Michel Onfray, il sempre deliziosamente provocatore ed acuto autore di «Decadence», vale a dire il miglior libro dell’anno, nonché fondatore dell’Università Popolare di Caen, ha identificato alcune delle maggiori figure che si celano dietro al fenomeno Macron: il filosofo «guerrafondaio» Bernard Henry Levy, Pierre Berge di Le Monde, Jacques Hattaly, che praticamente da solo ha tramutato i socialisti in neoliberali duri e puri; il cervellone Alain Minc, l’ex presidente di Medici Senza Frontiere Bernard Kouchner e l’ex «pasionario» del maggio sessantottino Daniel Cohn-Bendit. «In altre parole, i sostenitori implacabili di una politica liberale che ha permesso a Marine Le Pen di raggiungere il suo più alto risultato elettorale di sempre».

Tutti questi signori sono servi fedeli dello stato-nello-stato francese. In Asia Times ho delineato come l’ologramma Macron sia stato creato artificialmente. Ma per capire come lo stato nello stato sia riuscito a vendere con successo questo progetto bisogna rivolgersi alla figura di Jean-Claude Michea, discepolo di George Orwell e Christopher Lasch, nonché autore di «Notre Ennemi, Le Capital», pubblicato di recente. Michea studia in dettaglio come la sinistra abbia adottato tutti i valori di quel sistema che Karl Popper ha chiamato «società aperta». E come gli autorevoli falsari del mondo mediatico abbiano forgiato il termine «populismo» per condannare la forma contemporanea del Male Assoluto. Marine Le Pen è stata ostracizzata come «populista», sebbene la propaganda mediatica abbia sempre negato che gli elettori del National Front (ora 11 milioni) venissero dalle «classi popolari».

Michea enfatizza il significato originale, vale a dire storico, di «populismo» nella Russia zarista: una corrente all’interno del movimento socialista -apprezzatissimo da Marx ed Engels- in base a cui i contadini, gli artigiani e i piccoli imprenditori avrebbero avuto il loro posto d’onore in un’economia socialista evoluta. Nel maggio 1968 in Francia nessuno avrebbe mai pensato che il populismo sarebbe stato sinonimo di fascismo. Questo accadde solo agli inizi del 1980 come conseguenza della creazione del linguaggio orwelliano neoliberalista.

Michea nota anche che nelle congiunture attuali è molto più facile essere un neoliberale di sinistra che uno di destra; in Francia, questi liberali di sinistra appartengono alla cerchia ristrettissima dei «Giovani Leader» adottati dalla Fondazione Franco-Statunitense. Il cartello multinazionale e finanziario-bancario francese -in due parole, la classe dominante nel paese- ha compreso immediatamente che un candidato di destra cattolica tradizionale come Francois Fillon non avrebbe mai preso il volo; questo cartello aveva bisogno di una nuova etichetta per la stessa bottiglia. Da qui Macron: un brillante riconfezionamento venduto come un cambio in cui la Francia può credere ed anche in un approccio relativamente «soft» alle riforme necessarie per la sopravvivenza del progetto neoliberale.

Cosa sembra i francesi abbiano votato: l’unità dell’economia neoliberale ed il liberalismo culturale. Chiamatelo, come fa Michea, «liberalismo integrato». Oppure, con un’implicazione orwelliana, «capitalismo post-democratico». Una vera rivolta delle elites. E i «villici» ci credono pure. Che mangino dunque del croissant troppo costosi per loro. Ancora una volta, la Francia guida l’ovest.

(di Pepe Escobar – AsiaTimes, traduzione di Claudio Napoli)

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