Stachanov e la trasvalutazione del lavoro

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La Festa del lavoro che ricorre quest’oggi viene celebrata da alcune sigle sindacali, come di consueto, indicendo uno sciopero, cioè mediante l’interruzione del lavoro stesso. E non potrebbe essere altrimenti in una società ove al lavoro si contrappone il capitale, ove i lavoratori sono stimolati e “messi in moto” col bastone e con la carota – e in tempi di crisi come i nostri è spesso il primo che va per la maggiore.

Sprovvisti del potere economico e decisionale necessario a disporre del proprio destino, a fare progetti di vita, a difendersi dalle casuali perturbazioni del mercato, è perfettamente logico che gli uomini disprezzino il lavoro che svolgono per conto di chi li sfrutta e cui sono spinti da motivazioni indirette ed estrinseche, cui sono in ultima analisi costretti sotto la minaccia della disoccupazione e della conseguente miseria.

Tuttavia presso alcuni settori della sinistra antagonista si osserva la tendenza a tralignare da queste precise coordinate storiche, ad estendere tale considerazione negativa del lavoro oltre i limiti del contesto sociale in cui si origina e a proiettarla indiscriminatamente verso l’avvenire.

Soprattutto alcuni esponenti dell’anarchismo postmoderno s’immaginano volentieri la futura “società autogestita” come una specie di grande centro sociale, in cui ciascuno possa trascorrere le proprie giornate fumando canne e lavorando svogliatamente lo stretto necessario al proprio sostentamento.

È la consumistica rivendicazione sessantottina dei diritti avulsi dai doveri, alla cui luce, secondo le parole di Costanzo Preve, «la differenza fra il liberale normale e l’anarchico disobbediente è che il liberale è disposto a pagare per consumare, mentre l’anarchico disobbediente vorrebbe consumare senza pagare, e chiama questo comunismo».

Affascinato dallo stile di vita ozioso e parassitario delle classi sfruttatrici cui non troppo occultamente spera un giorno di appartenere, qualche preteso ribelle anticapitalista profetizza perfino il “superamento del lavoro” in seguito allo sviluppo tecnologico, sognando di poter riempire la propria mente aperta con i souvenir collezionati girando il mondo a costo zero, senza che la propria insostituibile originalità personale venga “sciupata” nella vita lavorativa.

Costui non s’interroga nemmeno sulle conseguenze che comporterebbe la scomparsa di un’attività che – al netto del suo mutevole contenuto di classe – ha contribuito in misura decisiva a plasmare la persona umana nel fisico e nello spirito, nella maestria tecnica e nella tempra caratteriale, nella conoscenza scientifica e nella disciplina organizzativa, un’attività che ha insomma creato l’uomo stesso per come oggi lo conosciamo.

Un’eloquente risposta a questi odierni rigurgiti del più vieto utopismo giunse più di ottant’anni fa dal cuore pulsante della Russia sovietica, dalle masse lavoratrici che, lungi dall’abbandonarsi al torpore come vorrebbero certi becchini del socialismo, si lanciavano con orgoglio ed ottimismo nell’epica costruzione della società nuova e dell’uomo nuovo.

Prototipo di spicco della nuova umanità socialista fu il minatore Aleksej Stachanov, che il 31 agosto 1935 superò di quattordici volte la quota di carbone da estrarre prevista dal piano e meno di un mese dopo batté ancora il proprio record.

Da questo operaio del Donbass, divenuto in breve tempo una celebrità nazionale grazie alle sue gesta nel campo del lavoro, prese il nome un intero movimento di lavoratori d’assalto e innovatori della produzione che diventavano a loro volta modelli da imitare per la classe operaia sovietica, esempi di uomini nuovi e protesi verso il futuro.

Non si trattava tanto d’intensificare i ritmi di lavoro, come a suo tempo credette l’Occidente che teneva l’operaio meccanicamente ancorato alla catena di montaggio e non riusciva a figurarsi un sistema di lavoro diverso, quanto piuttosto di accrescere il livello tecnico e culturale degli operai, di portarli a raggiungere e superare le competenze degli ingegneri e degli specialisti, a sconvolgere le vecchie norme tecniche e a razionalizzare dal basso il processo produttivo arricchendolo di nuove invenzioni e metodi di lavoro.

Da gravoso fardello qual era ai tempi del capitalismo, nelle mani del popolo sovietico il lavoro si era trasformato in un formidabile strumento di crescita e promozione sociale di ogni individuo, in un eccellente antidoto al pernicioso egualitarismo che periodicamente contamina gli ideali socialisti.

Diceva Stalin alla I Conferenza generale degli stachanovisti, convocata il 17 novembre 1935: «Taluni pensano che si possa consolidare il socialismo mediante un certo qual livellamento materiale degli uomini sulla base di una vita misera. Non è giusto. Questa è una concezione piccolo-borghese del socialismo. In realtà, il socialismo non può vincere che sulla base di una elevata produttività, più elevata che non sotto il capitalismo, sulla base di un’abbondanza di prodotti e d’ogni genere di oggetti di consumo, sulla base di una vita agiata e civile per tutti i membri della società».

La liquidazione delle classi sfruttatrici non significò infatti l’annullamento delle differenze individuali e il grigio livellamento della vita sociale ma, al contrario, aprì la strada ad un’autentica valorizzazione delle differenze sulla base del merito personale, eliminando i vantaggi immeritati che derivavano dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e legando la posizione sociale di ognuno davvero soltanto al suo impegno sul lavoro.

Gli sforzi degli stachanovisti erano ricompensati non solo da incentivi materiali e premi di produzione, ma anche dal titolo di “Eroe del lavoro socialista” e da altre prestigiose onorificenze, dalla fama e dalla soddisfazione morale propria di chi guida lo sviluppo sociale non grazie all’eredità o a una raccomandazione ma reggendosi saldamente sulle proprie gambe.

Secondo le parole dell’insigne filosofo marxista Galvano della Volpe, lo stachanovismo fu «una tendenza rivoluzionaria del costume, in quanto creatrice di un’élite radicalmente diversa dalle élites che la storia ha conosciuto finora, onde lo stesso concetto di élite ne è rivoluzionato», giacché «il lavoratore scelto ed eminente, lo stachanovista, rappresenta un tipo di élite per cui si esprime un complesso di qualità personali che significano il grado più alto di socialità da parte degli individui — eminenti — che le possiedono…Onde la massima concentrazione personale coincide con la massima socialità, con la massima umanità come socialità».

In questa profonda trasvalutazione socialista del lavoro risiede la migliore risposta ai teorici del suo “superamento”, ai profeti della società di consumatori e fannulloni che vorrebbero tanto ribellarsi al capitalismo ma restano irrimediabilmente prigionieri del suo angusto orizzonte antropologico.

(di Francesco Alarico della Scala)

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