Primo Maggio degli invisibili: in Lucania tra disoccupazione e immigrazione

Le strade sono quelle calcate fin da bambino. Dove c’erano pietre, bimbi e super santos oggi c’è l’asfalto bollente del pomeriggio, un viale che sembra non finire mai e il silenzio che sa di spopolamento.

La Basilicata perde 3500 abitanti ogni anno, un intero paese, una diaspora “made in sud” mai sopita, chi resta non se la passa tanto bene. Resiste, stenta. Crea il nuovo ceto medio proletarizzato, incattivito, realista. Restio a qualsiasi logica politica, se non quella locale con cui si confronta ogni giorno, a cui urla silenziosamente il sentirsi messi da parte dai palazzi. Una volta coccolati e perno dell’elettorato, oggi completamente abbandonati.

È la vecchia borghesia. Disillusa dal contorno, attaccata solo al presente, impaurita dall’incertezza del futuro. È il sud del sud. È il “popolo dei Lidl”.

La signora Lena (nome fittizio, per ovvio rispetto della privacy) mi attende davanti ai casermoni delle case popolari, la permanente dorata ancora fresca dalla Pasqua passata da poco. Un sorriso. un abbraccio condito da “sei un giovanottone, andiamo”. Saliamo i tre piani a piedi, lentamente. L’ascensore non è rotto, non c’è proprio: non previsto dall’edilizia popolare anni ’70.

“Non servirebbe tanto per me, ma per due disabili nel palazzo e una novantenne in carrozzina “. I gradini affrontati dalla signora quotidianamente, fanno sentire tutto il peso e i dolori degli anni passati a raccogliere pomodori, fragole e tutto quello che il vicino metapontino offre. Oggi tanta precarietà.”

Ci sediamo e iniziamo a parlare proprio di braccianti: “In 15 anni è cambiato tutto – esordisce -, la piazza prima, alle quattro del mattino, era più viva di quanto lo fosse a mezzogiorno. Partivano tre autobus pubblici e vari pulmini privati. Conosco gente che grazie “alla marina” [così si chiama in dialetto il metapontino, ndr], facendo i braccianti, si è costruita una casa, un futuro, ha permesso ai figli di sposarsi. Oggi ne partono al massimo 20 e per metà sono stranieri.”

Un lavoro ormai mutato negli anni, in mano prevalentemente al caporalato centro-nord africano, eccezione fatta per alcune aziende: “Prima avevi i sei mesi di assegno di disoccupazione, contributi e  ‘giornata’ pagata bene. Riuscivi a vivere dignitosamente, facendo studiare i figli. Ora gestiscono tutto ‘loro’  [caporali extracomunitari, ndr], la maggioranza lavora in nero e per paghe misere: anche 15 euro per 10 ore. Se ti va bene allora tutto scorre, altrimenti ne cercano un altro, e lo trovano. Non è lavoro, ma schiavismo.”

Concorrenza sleale, gare a ribasso giocate sulla nuova disperazione contrapposta a quella esistente. Una storia rappresentativa della situazione reale di un sud della Basilicata che si svuota e vive di stenti: “Ormai viviamo di una pensione, quella di mio marito e di lavori saltuari, con tre figli disoccupati. Due facevano i muratori, ma lei sa bene come vanno le cose negli ultimi anni” .

L’edilizia dal 2008 è precipitata, un tracollo che ha visto chiudere 7 ditte su 10 in questa area. Una marea di operai edili costretti a fare le valigie: ragazzi e padri di famiglia, tutti partenti verso il nord. Storie uguali e diverse.

Lena stringe forte il bordo del copritavola tra le mani. Nemmeno noi possiamo nascondere, nel vederlo, un certo magone. Poi inizia un discorso che non si può nascondere nel cassetto dell’ipocrisia, né della censura. Un discorso sempre più diffuso, che fa vacillare seriamente la classica, famosa ospitalità lucana. Un discorso che di razzista non ha nulla, ma ha tanto di sociale, nell’era dell’abbandono, dopo l’abbondanza.

“Non è giusto vedere persone che arrivano da fuori alloggiare negli hotel, mangiare e bere, rubare occupazione, decidere i prezzi da fare al padrone. Siamo abbandonati. Io lavoro due volte a settimana e ho 60 anni, un marito malato e tre figli sulle spalle. Se non fosse per il sindaco, che ci trova qualche lavoretto e ci aiuta…Ma non è vita, prima o poi faranno le valigie pure loro, i miei figli [indica una stanza, ndr], almeno i due maschi” .

Amministratori spesso bistrattati, con i trasferimenti da Roma dimezzati costretti a fare da ammortizzatore, là dove lo stato sociale non arriva più. Sindaci in prima linea ad affrontare la crisi e supportare gli ultimi delle periferie d’Italia. Dove il primo maggio ha il sapore della rabbia. È solo a questo punto che il marito di Lena, fino ad ora silenzioso, seduto serafico sul divano, quasi imbarazzato, interviene con la sua voce fioca, stanca, provata dagli anni e dalla malattia.

“Il giorno di Pasqua, un’ amica di mia figlia disquisiva di integrazione. Di soluzioni. Ora, mia moglie parla con la rabbia, ma non ha tutti i torti. L’integrazione si crea in un solo modo, col lavoro. Io sono emigrato dove c’era una richiesta alta di manodopera, addirittura dove le quote di lavoratori erano concordate tra governi, come in Belgio. Un tot di lavoratori per una quota di carbone in Italia. Eravamo barattati. Nonostante tutto c’era diffidenza anche in Belgio. Non lo nego”.

Lena si allontana sorridendo: “Ora non la smette più”, sentenzia. E infatti “zio” Antonio (anche questo fittizio) è un fiume in piena: “C’era razzismo, diffidenza, ma lavorando e interagendo abbiamo aiutato a farlo scomparire, cercando di aprirci alla società che ci ospitava, anzi pure fin troppo…”

Gli occhi di Antonio guardano lontano: “A volte incontravi degli italiani vestiti alla belga, sgargianti, erano ridicoli. Oggi si chiudono a riccio”.

Un paese con tanti giovani a spasso (nell’area sud della Basilicata la disoccupazione giovanile tocca il 46%), senza richiesta di lavoro non riuscirà mai ad integrare nuova immigrazione. Anzi, si crea tensione, cattiveria, in altri ambiti nemmeno ci sarebbe. Dove c’è benessere non c’è tensione. Oggi semplicemente non ci sono soldi. È brutto da dire e da sentire. Ma è cosi.”

La stanza si riempie di silenzio, disincanto e rispetto. Tanta saggezza, quella di un ex minatore che dalla vita ha avuto poco da un rientro disatteso, e tanta malattia sorretta da un bastone. Da quel poco ha saputo trarre una preziosa morale.

“E’ un periodo difficile, ti penti spesso di essere ritornati a casa. Questa situazione non giova a nessuno, né agli italiani né agli immigrati. Il lavoro è poco e sottopagatato, conteso tra disperati. Questo è tutto”.

Il discorso breve e coinciso di un vecchio operaio: osservazioni che, alla vigilia della festa dei lavoratori, nemmeno il più forbito dei filantropi saprebbe fare. Arriva come un colpo al cuore. Saluto e ringrazio infinitamente Antonio.

È il crepuscolo, quasi sera, esco sul balcone a salutare, Lena stende i panni. A lato i casermoni color cemento, di fronte le colline rese bellissime dalla fioritura primaverile. Un contrasto visivo e insieme anche morale . Inprovvisamente delle urla attirano la mia attenzione, due bimbi, nel cortile di asfalto e terriccio, giocano a pallone.

È il finale giusto: bambini di una Lucania stupenda e sfiancata, di promesse mancate. Bambini a cui auguriamo un primo maggio e un futuro diverso, dignitoso, sereno, soprattutto un primo maggio nella propria terra, terra di padri destinati a lottare ogni giorno, terra che oggi vede loro felici e inconsapevoli a rincorrere un pallone, nella speranza che questo non si tramuti nell’ennesimo treno.

Accompagnati dall’immancabile valigia.

(di Luigi Ciancio)