La tragica fine di un leader “antisistema”

Sono passati poco più di 80 giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti. E nulla è cambiato nella strategia americana. Non è stato sconfitto l’establishment – che è al potere esattamente come prima. Non hanno subito alcuna battuta d’arresto l’egemonismo e l’imperialismo – ora in fase di rilancio. Non c’è stato un riavvicinamento con Mosca – e venti di guerra si levano prepotenti. La Presidenza che doveva rovesciare il sistema, che doveva prosciugare la palude, è finita per impantanarsi, per diventare essa stessa la palude. Ed Hillary Clinton, insieme a John McCain, plaude fiera alle azioni di quel Donald Trump che l’ha battagliata con incredibile acrimonia proprio per il suo guerrafondaismo.

Con l’attacco, criminale e ingiustificato, compiuto contro la Siria in data 7 aprile, Donald Trump non ha ottenuto che una sconfitta. Ha perso, e di netto. Ha perso, innanzitutto, la sua credibilità: aveva condotto una campagna elettorale improntata alla necessità di collaborare e non rovesciare Assad in quanto baluardo contro il terrorismo (e Tillerson aveva ribadito ciò il 30 aprile ad Ankara, insieme a Nikki Haley), ma una settimana più tardi ha ordinato un attacco militare proprio contro quel Presidente che «combatte l’ISIS» (parole della sua campagna elettorale).

Ha perso molti suoi fedelissimi: una parte gigantesca dell’alt-right ha dichiarato guerra al tycoon, e tantissimi suoi sostenitori nei più svariati ambiti si sono dissociati e allontanati dalla sua ingiustificata svolta in Siria (dal vignettista Ben Garrison, ai senatori Ron e Rand Paul, alla democratica Tulsi Gabbard, fino a malumori in Breibart ed Infowars). In Donald Trump, ormai, vedono una immagine sbiadita e prevedibile di un George W. Bush o di un McCain qualunque.

Trump ha perso, soprattutto, la reputazione: ha compiuto un gesto impulsivo, senza il voto al Congresso come richiesto dalla prassi, senza che ci fossero alcune prove sulla responsabilità di Assad, non ha mostrato nessuna considerazione per quello che doveva essere il suo “amico” russo, senza consultarlo o proporre azioni congiunte, e, più grave ancora, ha agito frettolosamente senza alcuna strategia. Una mossa impulsiva che non migliora lo scenario, anzi, lo rende più infiammabile e imprevedibile. Come si suol dire “nel dubbio ha sparato” – e ha fatto uno sbaglio terribile.

Ma dove è finito il Donald Trump che abbiamo visto fino a pochi mesi fa? Quello che prometteva che gli USA non sarebbero più stati il poliziotto mondiale e che le azioni militari all’estero erano spese inutili? È mai davvero esistito? Non lo sappiamo. Dietro la verve camaleontica che lo ha sempre distinto, ha dimostrato la capacità di mutare idee su questioni di rilievo quasi schizofrenicamente da quando è stato eletto – sempre che non fosse tutto già deciso da tempo. Se è vero che il grande “nemico” establishment lo ha attaccato con veemenza, silurando prima Flynn e poi Bannon (e insidiando voci nel “cerchio magico” contro Sessions), indebolendolo e prendendolo di forza, è altrettanto vera un’altra cosa: Trump non ha opposto alcuna resistenza. Si è adeguato con una semplicità quasi naturale ai diktat dello Stato profondo, quasi fosse “quello che dovevamo attenderci da lui”. In lui non si è visto né il vulcanico oratore che si definiva «a fighter» e nemmeno un politico alla ricerca di compromessi tra le sue idee e quelle di una forza superiore: si è visto un Presidente piegarsi supino all’agenda neocon, finendo per elogiarla.

La dimostrazione di forza, di muscolarità, di aggressività, di “senso di giustizia” che Trump voleva dare, in realtà, è stata una catastrofica dimostrazione di debolezza. Tutti sapevamo che la sua sarebbe stata una Presidenza debole, in verità. Ma non così tanto. Preso tra un Congresso che non ne vuol sapere di accordarsi alle sue scelte (vedasi Obamacare e nomina di Gorsuch alla Corte Suprema, risolta solo dopo un cambio imposto delle regole di voto), una Corte Suprema paralizzata e che ha per due volte bocciato il cosiddetto “Muslim Ban”, un partito spaccato e un paese diviso ed in ebollizione, Trump ha pensato di uscire da questa impasse con il modo più ridicolo e inconcludente possibile. Un attacco contro un avversario inerme per far capire che lui è “forte” e si “fa rispettare”. Potrà ricompattare il suo partito, portando i neocon a sostenerlo? È verosimile, anche se la sfiducia profonda che in molti nutrono verso il suo personaggio difficilmente si cancellerà – ed è anche vero che i repubblicani anti-neocon che fino a ieri lo sostenevano, probabilmente smetteranno di appoggiarlo. Ma, anche ci riuscisse, ciò non cambierebbe la natura di una Presidenza debole, nata nella tempesta tra correnti più forti di lei e che alla fine l’hanno trascinata, volente o nolente, verso un’unica direzione: quella decisa dallo Stato profondo. Citando Seneca: «Il fato guida colui che vuole farsi guidare, e trascina chi non lo vuole», solo che qua non si tratta di fato, ma dell’apparato militar-industriale più potente del mondo.

Cosa possiamo infine aspettarci dai tre anni e mezzo di Presidenza che ci restano? Tutto e il suo contrario, verrebbe da dire. Più verosimilmente, un continuo tradimento degli impegni presi, una sempre più marcata violazione di promesse e delle idee che lo avevano fatto vincere. Il vero Donald Trump, verrebbe da dire, è morto il 21 gennaio 2017: così come era non sarebbe mai potuto davvero diventare Presidente degli Stati Uniti. La sua Presidenza si può dire già fallita: fallita in tutto ciò che aveva promesso di rivoluzionare, e che l’ha colpita e ammorbata mortalmente. Questa è una scure che, per le elezioni del 2020, sicuramente cadrà sulla testa di Trump, e di chi lo aveva votato perché “isolazionista”, “rivoluzionario”, “antisistema”, “anti-establishment”, “patriota” – e che ora si trova davanti una versione più volgare di Hillary Clinton.

(di Leonardo Olivetti)