La vera storia dell'imperialismo

La vera storia dell’imperialismo

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1. Età dell’imperialismo è considerata il periodo dal 1870 al 1914 (cioè dalla guerra franco-prussiana alla prima guerra mondiale). Nella datazione, si nota immediatamente l’errore di impostazione nel considerare che cos’è l’imperialismo. Due errori di fondo. Innanzitutto, l’evidente eurocentrismo. In secondo luogo, ben più rilevante, l’identificazione tra imperialismo e colonialismo, per di più quello di vecchio stampo con sottomissione del paese colonizzato (precapitalistico e, come si sarebbe detto assai più tardi, sottosviluppato) ad un paese ormai compiutamente capitalistico (e industrializzato), occupazione territoriale e amministrazione statale da parte di quest’ultimo e, in genere, imposizione della sua lingua, di forme culturali, ecc. Si confonde l’effetto con la sua effettiva causa.

Dobbiamo invece considerare imperialismo il periodo che va dalla guerra civile americana (1861-65) al 1945, fine della seconda guerra mondiale e nascita del cosiddetto mondo bipolare Usa-Urss (anche questa definizione andrebbe oggi meglio qualificata e precisata). Certe correnti dette “terzomondismo” (utilizzando impropriamente un marxismo del tutto incompreso e stravolto) hanno continuato a parlare di imperialismo (e socialimperialismo con riferimento all’Urss) anche dopo il 1945, riferendosi alle continue manovre di sorda (e non sempre ben compresa) ostilità tra le due cosiddette superpotenze durante il periodo 1945-1989/91, detto – anche questo impropriamente – della “guerra fredda”.

Per questo motivo, ho proposto di sostituire il termine imperialismo con altri due: multipolarismo e policentrismo. Vediamo un po’. Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone (e dunque della Francia post-rivoluzionaria) a Waterloo e il Congresso di Vienna (1814-15), l’Inghilterra emerge assai velocemente come prima potenza mondiale. Tale paese era già da lunga pezza dominatore di una gran parte del mondo ridotto a sua colonia. Nel 1783 perde definitivamente, dopo lunghi anni di guerra, le importanti colonie del nord America, quelle già dichiaratesi indipendenti come Stati Uniti il 4 luglio 1976 (presidente Jefferson). Tuttavia, nei primi decenni dell’800 viene a conclusione la prima “rivoluzione industriale”, di cui l’Inghilterra è il vero “prototipo”, tanto che nella grande mostra internazionale di Londra del 1851 verrà dichiarata il “laboratorio del mondo”.

Ci si ricordi che detta “rivoluzione” si considera iniziata (appunto in Inghilterra) nel 1760-70, più o meno quando questo paese perde le sue non certo irrilevanti colonie nordamericane. Nessun rapporto di causa e conseguenza tra i due fatti, sia chiaro, una pura coincidenza. Volevo soltanto segnalare che i possedimenti coloniali, di per se stessi, non fanno grande la potenza di un paese grazie allo sfruttamento delle loro “ricchezze”, soprattutto agricole e minerarie (e di miniere per l’industria, l’Inghilterra era ricca di per suo). Il decisivo delle colonie è lo stabilimento di basi “logistiche” in varie aree del mondo, con estensione ulteriore (quindi anche oltre le colonie) della cosiddetta “sfera d’influenza”, fondamentale per mantenere il controllo di gran parte del territorio mondiale, così sottratto all’influenza delle altre potenze concorrenti.

In ogni caso, malgrado una certa riduzione della propria sfera d’influenza (nel nord America), l’Inghilterra del dopo Congresso di Vienna diventa la più grande potenza del mondo. In un certo senso si può parlare di gran parte dell’800 come di un periodo sostanzialmente (non esclusivamente né mai definitivamente) monocentrico: il monocentrismo inglese appunto. Con la guerra civile americana – vinta provvidenzialmente (per gli Stati Uniti) dalla parte industrializzata del paese – e con la guerra franco-prussiana (ulteriore e definitiva botta alla Francia e crescita della potenza tedesca; nel 1871 nasce ufficialmente la Germania, con accettazione della predominanza prussiana da parte degli altri Stati tedeschi; e va ricordato, come curiosità almeno, che nasce nella “Sala degli specchi” a Versailles dopo il crollo della Francia di Napoleone III) cominciano a crescere le potenze alternative. In un primo tempo, però, non ci si accorge del declino inglese e il paese d’oltre Manica resta comunque la prima potenza. Per questo, direi che dal 1865 (vittoria del nord industriale contro il sud cotoniero negli Usa) inizia ad avanzare il multipolarismo (inizialmente poco avvertito).

In tale periodo si sviluppa, subito dopo la vittoria tedesca sulla Francia, la cosiddetta “grande depressione” (1873-95 o 96). E’ il periodo in cui si verifica il forte sviluppo della seconda rivoluzione industriale (in particolare nei settori metallurgico, elettrico, chimico), iniziata grosso modo nella seconda metà degli anni ’50, ma che tocca appunto il massimo negli ultimi decenni del secolo. Non si verificano veri crolli (soprattutto finanziari come poi nel 1907 e, più tardi, nella “grande crisi” del 1929), ma arretramenti della produzione, alternati a volte a brevi periodi di bassa e stentata crescita; soprattutto si ha deflazione dei prezzi. E’ un periodo di forte innovazione tecnologica, netto intreccio tra scienza e tecnica, aumento deciso della produttività del lavoro, una delle cause dell’“eccesso” (relativo) di produzione (e dunque offerta) rispetto alla domanda, cioè al consumo (di beni di consumo come di produzione, cioè il cosiddetto investimento).

Non si esageri però nella spiegazione economicistica di quella crisi di stagnazione, che presentò certo larghi tratti economici, quelli che più colpirono perché la “superficie” è ovviamente più visibile della “profondità”. Il reale motivo di fondo di quella crisi risiede proprio nell’inizio del multipolarismo, nella tendenziale fine del monocentrismo inglese. Per gran parte dell’800 dominò, nel campo dell’economia politica (che prende il davanti della scena quale prima scienza sociale in formazione), la teoria ricardiana del commercio internazionale, quella dei “costi comparati”. Si sosteneva che il benessere generale, per tutte le nazioni, sarebbe stato maggiore se ogni paese avesse ulteriormente dato impulso ai settori produttivi di cui era principalmente dotato. In definitiva, sarebbe stato più utile per tutti che l’industria manifatturiera e industriale rimanesse appannaggio dell’Inghilterra mentre gli altri paesi dovevano incrementare settori, che avrebbero fornito soltanto materie agricole e comunque non industriali. Il classico esempio era la “specializzazione” di Portogallo e Francia in vino, dell’America in frumento, mentre i prodotti industriali sarebbero stati prodotti dall’Inghilterra, che in tal caso sarebbe rimasta l’unico paese a svilupparsi in modo pienamente e robustamente capitalistico, dominando tutti gli altri con i suoi settori ad avanzata tecnologia (anche, e soprattutto, in campo militare).

Anche se nella storia del pensiero economico, a Ricardo è dedicato uno spazio enormemente superiore rispetto a quello assegnato a List, in realtà nella pratica del commercio internazionale furono le teorie protezionistiche di quest’ultimo (ma solo in riferimento alla fase dell’“industria nascente”) ad essere seguite dalle potenze in crescita (Usa e Germania in primo luogo) durante il periodo del multipolarismo. E ancora una volta, è bene prendere atto che la politica economica fu l’effetto della causa decisiva: la vittoria di nuclei dirigenti americani e tedeschi motivati a conseguire una prevalente posizione nel confronto con i competitori e, dunque, in avanzata nella conquista di più ampie “sfere d’influenza”; una politica che provocò lo scoordinamento conflittuale tra i vari sistemi nazionali e dunque le conseguenti crisi: quelle economiche (tipo la “grande depressione” e poi le più acute crisi iniziate con crolli di Borsa ecc.) e quelle, ancora più decisive, di tipo bellico (due “grandi guerre”) e di tipo politico (la rivoluzione russa, l’ascesa di fascismo e nazismo, ecc.).

2. Se s’intende continuare a identificare la politica imperialista come una semplice occupazione di spazi territoriali di tipo precapitalistico (spesso nemmeno rappresentati da veri paesi minimamente strutturati) da parte di alcuni paesi invece ormai arrivati allo stadio dell’industrializzazione capitalistica, indubbiamente non si può più parlare di vero imperialismo dopo la prima guerra mondiale. Permangono alcune aree (e paesi) occupati (in precedenza) secondo la metodologia coloniale – in particolare da parte dell’Inghilterra (con la più grande estensione di colonie) e della Francia, mentre Italia e Germania tentano una pallida imitazione – ma nel secondo dopoguerra queste colonie vanno gradualmente sparendo. L’India si affranca dalla dominazione inglese; non certo per la lotta di liberazione condotta con modalità falsamente pacifiche, esaltate con il gandhismo, una delle più colossali mistificazioni ideologiche inventate in “occidente” per squalificare la vera lotta anticolonialista di tipo algerino o indocinese, condotta con gli autentici modi da usare contro i prepotenti dominatori.

L’India si affranca dal colonialismo inglese – così come altri paesi – semplicemente perché l’Inghilterra ha nei fatti perso la seconda guerra mondiale rispetto agli Usa. Il paese asiatico, che ebbe come primo ministro Nehru (dal 1947 al ’64), fu alla testa dei “non allineati” assieme all’Egitto (di Nasser) e alla Jugoslavia (di Tito). Alla fine si avvicinò agli Stati Uniti, certo anche in seguito ai contrasti con la Cina (sfociati fra l’altro nella breve guerra del ’62). E da allora è sempre stato dalla loro parte. Non raccontiamoci tante storie; il “non allineamento” favorì alla lunga gli Usa più che l’Unione Sovietica. Anche la Francia, sempre perché il colonialismo non teneva ormai più e perché pur essa fu sostanzialmente una perdente nella seconda guerra mondiale, viene sconfitta a metà anni ’50 in Vietnam, che passa in parte sotto il predominio dei comunisti (così venne definita quella forza politica in conflitto, alleata dell’Urss) e in parte sotto quello americano. In effetti, si tace sempre che gli Usa appoggiarono la lotta “anticolonialista” e falsamente autonomista di quelle forze che poi, dopo varie vicende che tralascio, andranno al potere con Ngo dinh Diem, ma solo appunto nel Vietnam del sud. E le vicende successive sono note e al momento non le tratto.

Il terzomondismo – questo pigro tentativo di consolarsi della mancanza di spirito rivoluzionario della “classe” operaia da parte di anticapitalisti in forte ritardo di comprensione dei mutamenti subiti proprio dal capitalismo con l’avvento della supremazia statunitense nel mondo “occidentale” – ci ha deliziato per anni con la lotta contro il (neo)imperialismo degli Usa, ancora una volta identificato con il (neo)colonialismo. In realtà, si era entrati nel cosiddetto mondo bipolare a predominanza Usa-Urss.

Le due superpotenze, una delle quali è stata decisamente sopravvalutata (anche di questo parleremo a tempo debito), si divisero le sfere d’influenza. Sappiamo che ci fu quasi subito il terzo incomodo cinese (definito comunista sotto la guida di Mao); e pure esso, alla fin fine, ha favorito la sconfitta definitiva dell’Urss. Sia chiaro: meritata e senza alcun rimpianto particolare, salvo la necessità di un’analisi di che cosa è stato il mondo detto “socialista”, analisi che a mio avvio manca completamente. Tuttavia, deve essere chiarito a che cosa è infine servita – non dico nelle intenzioni d’avvio, sia ben chiaro – la “grande” Rivoluzione culturale cinese (1966-69) di impronta maoista (di un Mao ormai invecchiato e “tirato” da tutte le parti). Non certo a far ripartire una impossibile (e solo fantasticata da un secolo e più) rivoluzione proletaria. Morto Mao, i pretesi nuovi fautori di tale “rivoluzione” furono fatti fuori in un mese e, dopo un paio d’anni di assestamento coperti da un dirigente posticcio (fatto passare per figlio naturale di Mao, Hua Guofeng), andò al potere Deng (Xiaoping). La Cina si lanciò in quella via in cui si trova tuttora e che solo qualche cretino prende ancora per “socialista”.

I “poveri” terzomondisti sono rimasti delusi in un tempo estremamente breve a differenza dei cultori della “classe operaia” quale soggetto dell’abbattimento e trasformazione rivoluzionaria del capitalismo (cultori dei quali ho fatto parte anch’io, non amo mentire in proposito). A partire dal crollo del “socialismo reale” europeo e dell’Urss – e malgrado qualche demente, non solo di “sinistra”, cianci ancora di Cina o, ancora più ridicolo, di Cuba come paesi socialisti (altri dementi, di “destra”, li definiscono perfino comunisti) – si è ricominciato, sbagliando pur sempre, a parlare di globalizzazione capitalistica o altre sciocchezze analoghe. Un fatto resta: ormai quel processo storico – che si riteneva in grado di fare concorrenza e poi trasformare il mondo “occidentale” di tipologia capitalistica (così definito in termini assai generici e senza vera analisi dei cambiamenti intervenuti tra otto e novecento) – è venuto totalmente meno. Non esiste alcuna “transizione socialistica”, non esiste più alcun “accerchiamento delle città da parte delle campagne”.

Sono invece progressivamente riemerse alcune grandi potenze di tipologia capitalistica (sempre restando in deficit di analisi assai più avanzate, del tutto assenti), che alternano momenti di contrasto acuto con velleità (e finzioni) di accomodamenti. Siamo cioè entrati in un’epoca che ha “strane” rassomiglianze con quella (detta appunto dell’imperialismo!) che si distese a cavallo tra ‘800 e ‘900 fino alla prima guerra mondiale. E perfino la crisi iniziata nel 2008 (alcuni la pongono un anno prima, non importa) rassomiglia a quella 1873-96 (o ’95).

Tutti vogliono sostenere che sta per essere superata, ma credo proprio che se lo sogneranno ancora a lungo. Ricordo bene che nel 2009-10 qualcuno paventava perfino una grande crisi tipo 1907 o addirittura 1929. Senza certezze impossibili, scrissi però con una certa decisione che non ci credevo affatto, che sarebbe stata una crisi di sostanziale stagnazione. Tuttavia, questo non significa che tutti i paesi (e tutte le aree) siano in questa condizione né che non vi siano anche momenti di breve (e apparente) ripresa; l’essenziale è che perduri tutto sommato in periodo di tendenziale (non assoluta) stagnazione e di forte difficoltà ad ottenere effettivi aumenti di produzione, in specie nei paesi più avanzati. L’unica differenza tra questa stentata crescita e quella di fine secolo XIX è l’assenza di una netta deflazione dei prezzi. Comunque, negli ultimi anni si è verificato qualcosa del genere; e anche l’attuale impennata dei prezzi (è così definito il recente 1 o 1,5% di aumento su base annua; ci si è scordati della vera inflazione di non troppo tempo fa. E poi si parla solo dell’Italia, figuriamoci). Molto simile è invece il forte incremento dello sviluppo tecnologico, il già avvenuto avvio, e da tempo, di una reale nuova rivoluzione industriale, ecc.

Manca quello che allora era vissuto come un forte sommovimento sociale: la crescita impetuosa, appunto, della classe operaia, la presunta ondata che avrebbe rivoluzionato il “mondo capitalistico”. Il mondo è stato invece sconvolto dal conflitto infine aperto e senza remissione tra le potenze dette imperialiste per la supremazia globale. Il movimento operaio ha fornito improprie speranze venute a termine, per chi sa capire almeno ex post (a giochi fatti) ciò che accadde veramente, nel 1914-15 con lo scioglimento della II Internazionale.

La III, se qualcuno non è ancora totalmente cieco, serviva solo a difendere l’Urss, che alla fin fine è divenuta essa stessa una grande potenza, non certo il “faro del socialismo”. Per quanto mi riguarda, ho sempre profonda riverenza per la “Rivoluzione d’Ottobre”, la ritengo un evento di primaria grandezza, ma per motivi del tutto differenti da quelli vagheggiati (e non capiti) da noi comunisti (ma ancor meno dagli altri!) e, per di più, ancora per null’affatto collocati in una credibile dimensione storica. E chi fu comunista a questo deve tendere, ad una nuova analisi, che faccia giustizia anche delle nefande sconcezze propagandate da anticomunisti di una stupidità, ignoranza e malafede abissali. Senza tuttavia nulla più concedere a pretesi “ancor comunisti” – alcuni nostalgici, ma molti buffoni o ancor peggio degli imbroglioni che fingono d’essere anticapitalisti, piuttosto ben sistemati e vezzeggiati (e finanziati) dai ceti dominanti – che sono una delle vergogne di quest’epoca di “intellettuali pigmei”.

3. Cerchiamo di arrivare allora ad una conclusione, sia pure solo provvisoria (questo è evidente, io credo). L’imperialismo non è da confondersi in alcun senso con la politica di conquiste coloniali. Quest’ultima è semmai stata una conseguenza di ben altre cause; uno strumento per conquistare una posizione che si riteneva privilegiata nella lotta per la supremazia mondiale. Finita la prima rivoluzione industriale, e quindi affermatasi la società da definirsi capitalistica in senso proprio e storicamente specifico (prima si poteva parlare di capitalismo in termini approssimativi, per uno spirito di guadagno nella produzione di oggetti destinati allo scambio mercantile), l’Inghilterra fu relativamente a lungo il paese più forte e che dava il là all’andamento degli affari mondiali. Si può grosso modo indicare l’inizio di quest’epoca (di sostanziale monocentrismo inglese) con la data del Congresso di Vienna (1814-15) e la sua fine con la cosiddetta grande stagnazione e l’inizio della seconda rivoluzione industriale.

La guerra civile americana e quella franco-prussiana danno avvio alla forte crescita di due nuove potenze e, dunque, di un periodo di multipolarismo che poi, come già detto, sfocia nel XX secolo in aperto policentrismo conflittuale. La cosiddetta “epoca dell’imperialismo” è appunto quella del multipolarismo e dell’avvio del policentrismo sfociato nella prima guerra mondiale e poi proseguito fino alla seconda. L’imperialismo vero e proprio va considerato perciò come una fase storica corrispondente all’ultima delle cinque caratteristiche indicate da Lenin: la lotta tra potenze capitalistiche per dividersi il mondo. Conflitto che intelligentemente il rivoluzionario russo distinse da quello per la suddivisione del mercato mondiale tra varie grandi imprese capitalistiche e gruppi finanziari; con l’ulteriore precisazione che, ancora una volta grazie al suo acume, egli distinse il finanziario dal semplice predominio degli istituti addetti al trattamento di capitali nella loro forma liquida (o a questa assimilabile), affermando invece chiaramente che la finanza è “simbiosi” (espressione anche questa assai indovinata) tra industria e banca.

Il predominio inglese declina e il multipolarismo inizia a sfociare nel policentrismo già a partire dalla fine della grande stagnazione e dall’inizio del secolo (e, con la guerra russo-giapponese del 1904-5, avanza un nuovo “polo”, cioè una nuova grande potenza, in Asia). Comunque, è con la Grande Guerra che possiamo considerare veramente declinata del tutto la supremazia inglese e abbiamo effettivamente la “fine di un capitalismo”, quello che purtroppo i marxisti (seguendo appunto Lenin) pensarono in quel momento come fine del capitalismo “tout court” (“l’imperialismo ultima fase del capitalismo”). Quando ci si è accorti dell’errore, i marxisti più stupidi (qui almeno mi vanto di non averli seguiti) sostennero che Lenin intendeva “ultimo in ordine di tempo”. Imbecilli, così bloccarono per decenni la comprensione che in effetti il capitalismo non era più quello studiato da Marx sul modello inglese, non era più quello che ho provvisoriamente definito “capitalismo borghese”. Questo è finito proprio con la presunta fine dell’imperialismo, improvvidamente posta (seguendo pedissequamente Lenin) all’epoca del primo grande scontro policentrico mondiale; mentre quest’ultimo dura in effetti fino alla seconda guerra mondiale, cui segue la nascita del mondo bipolare.

“Ultima fase del capitalismo” doveva significare, nell’intenzione leniniana, l’approssimarsi della vittoria – prevista in base all’analisi marxiana del “modo di produzione capitalistico” nel “laboratorio inglese” – del proletariato, cioè della classe operaia, il mitico soggetto della “transizione” da quel modo di produzione, con proprietà privata dei mezzi di produzione, a quello socialista (prima fase del comunista) con proprietà collettiva degli stessi. Solo che la proprietà collettiva in Marx presupponeva correttamente ciò che non si avverò minimamente: la formazione del corpo dei produttori associati (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”). Mentre nel marxismo dei seguaci si trattava soltanto degli operai nel senso tradizionale del termine. Per quasi tutto il XX secolo, i marxisti, ormai ottusi, continuarono con la solfa di questa classe operaia “rivoluzionaria”. E allora ecco il susseguirsi di altre “ipotesi ad hoc” per spiegare come mai le rivoluzioni (sempre dette “proletarie”) avvenissero in paesi a massa contadina, decisamente non ancora capitalistici. Si pensava agli “anelli deboli della catena imperialista”; la prima volta di questa trovata (durante la guerra mondiale del 1914-18), si poteva ancora parlare di una qualche ingegnosità per sfuggire alla conclusione ovvia che i ceti operai non erano classe e non erano per nulla destinati a guidare una qualsiasi rivoluzione (“transizione” da una formazione sociale all’altra). Poi si è trattato di cecità totale.

In definitiva, l’età detta dell’imperialismo si chiuse con la “fine del capitalismo”, ma nel senso del “capitalismo borghese”, cioè della formazione sociale affermatasi in Inghilterra e diffusasi in Europa con le opportune modificazioni, quelle che condussero alla conclusione della prevalenza del capitale finanziario quale unione di industriale e bancario. Solo che dalla fine di tale capitalismo non emerse vincitore il “proletariato” (o la “classe operaia”), bensì un altro capitalismo di matrice statunitense, con caratteristiche in parte segnalate intelligentemente da Burnham nel 1941 (capitalismo manageriale), ma che attende ancora, in realtà, una vera caratterizzazione almeno all’altezza di quella marxiana del “capitalismo borghese”. Il capitalismo americano ha infine vinto su tutta la linea con il “crollo” del “socialismo reale” (1989-91). E allora dobbiamo con maggiore precisione dire che l’epoca, grosso modo individuata con il termine di imperialismo, è finita non nel 1914-18, bensì nel 1939-45. Ne emerse temporaneamente un mondo detto “bipolare”, anche questo in attesa di essere capito perché si continua pigramente a declinarlo come lo fu in tutta la seconda metà del secolo scorso. No, non era effettivo mondo bipolare; nonostante tutte le apparenze, il nuovo capitalismo, quello statunitense (da me definito “dei funzionari del capitale”), era già vittorioso malgrado una serie di errori (almeno così sono sembrati) del tipo della guerra in Vietnam; e tutto sommato anche del “watergate”, che mise i bastoni tra le ruote di Nixon-Kissinger, intenzionati ad acutizzare e rendere più efficace (per l’indebolimento del sedicente “campo socialista”) il contrasto tra Urss e Cina.

4. E allora concludiamo veramente, ma del tutto provvisoriamente, in attesa che dei veri storici si presentino sulla scena, cacciando nell’ignominia tutti quelli che hanno solo scritto immani fesserie di una superficialità sconvolgente per tutto il secolo scorso, con particolare accentuazione della loro malafede e ignoranza nella seconda metà dello stesso. L’Imperialismo non deve essere confuso con il colonialismo. Si è trattato di una lotta per le sfere d’influenza diventata particolarmente acuta con il presentarsi in scena di più grandi potenze nel periodo di crescita del multipolarismo e poi del policentrismo conflittuale acuto. Il colonialismo (di tipo anglo-francese) come il neocolonialismo Usa sono stati effetto e strumento di un simile conflitto teso a conquistare la supremazia mondiale.

Le solo presunte – e mai verificatesi realmente – rivoluzioni proletarie, nel senso di operaie, sono stati episodi di lotta anche violenta legata alle fasi iniziali di sviluppo del capitalismo in alcuni paesi (soprattutto in quelli divenuti i diversi poli del conflitto tra potenze); si è trattato di una serie di fenomeni legati al passaggio dalla prevalenza dell’agricoltura a quella dell’industria con forti processi di inurbamento di masse contadine. Una volta stabilizzatosi questo passaggio, una volta divenuti capitalisticamente “avanzati” i paesi in questione, i ceti operai si sono situati pienamente all’interno della riproduzione dei tipici rapporti capitalistici e si sono dati da fare per la redistribuzione del prodotto ottenuto, in definitiva per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro.

In Marx, classe significava, in modo nettamente preciso, la proprietà o non proprietà dei mezzi produttivi. Per questo motivo le classi da lui pensate erano sempre e soltanto due, in antagonismo irriducibile; tutto il resto erano strati sociali puramente coinvolti “secondariamente” da tale “definitivo” scontro. Dunque, per il fondatore della teoria della “rivoluzione proletaria” la classe dei non proprietari, dopo un congruo periodo di centralizzazione dei capitali (conseguenza della competizione intercapitalistica nel mercato), sarebbe stata rappresentata da tutti i salariati, dal corpo dei produttori associati (dal primo dirigente della produzione fino all’ultimo gradino degli esecutori), come più volte da me precisato. Una volta dimostratasi errata questa previsione, i politicanti e ideologi che sono vissuti sulla “lotta di classe” (si pensi a quei sostanzialmente corrotti “rappresentanti sindacali”; e sorvoliamo sui pretesi “partiti operai”) hanno parlato di classe senza nessuna fondazione teorica minimale; solo per richiamare una ideologia di combattimento, molto utile ai loro stipendi di manutengoli, che sembrava parlare di qualcosa di veramente straordinario e di massima efficacia per la pretesa “emancipazione delle masse”, mai verificatasi in senso “rivoluzionario” in nessun paese capitalistico avanzato. Quindi, mai si è verificato, nei paesi capitalistici sviluppati, nemmeno l’inizio di una qualsiasi transizione ad altra forma di società, pensata come socialista e poi comunista; si è solo avuto un avanzamento del tenore di vita della stragrande maggioranza della popolazione pur nell’ambito di crescenti differenziazioni nei vari livelli di reddito.

Gli autentici fenomeni rivoluzionari, implicanti mutamenti radicali di strutture dei rapporti sociali, sono avvenuti in paesi sostanzialmente precapitalistici, a stragrande maggioranza contadina (e i contadini non aspiravano ad alcun comunismo, bensì alla proprietà della terra); e sono stati guidati da determinate élites che alla fine si sono erette in nuovi gruppi dominanti, dimostratisi meno capaci di dare stabilità a quelle ancora ignote forme di società definite socialiste. In effetti, si deve ancora capire come mai per quasi tutto il XX secolo quelle élites rivoluzionarie hanno continuato a ritenersi “avanguardia” della “classe rivoluzionaria”, sempre pensata in termini di operai (ma non certo più di complesso dei produttori associati com’era nella teoria marxiana). Ed infatti, dappertutto, dette élites hanno dato avvio a forzati processi di industrializzazione, che avrebbero formato quella classe di cui loro si erano già dichiarati con grande anticipo l’“avanguardia”. I risultati di tutto questo pasticcio, giunto alla fine da tempo, sono ormai evidenti, ma sempre non studiati e non capiti; e sempre fonte di forzature ideologiche ormai tra il tragico e il ridicolo, che è appunto il carattere di certe farse. E queste sono recitate, con incapacità crescente, da guitti d’avanspettacolo, rappresentati sia dai rimasugli dei comunisti (o dalle presunte “sinistre”) sia dalle torme di aberranti (e aberrati) anticomunisti, ancora in preda a choc per la paura presa di perdere i loro privilegi.

Ad un certo punto, si è smesso per fortuna di parlare di “rivoluzioni proletarie”, di “transizione o costruzione del socialismo” e altre fanfaluche ormai disgustose. O meglio, si è quasi smesso; alcuni residui di dementi sono ancora rimasti e organizzano pure convegni che qualcuno (fra i dominanti) finanzia. Tuttavia, si è soprattutto continuato a parlare ancora per qualche tempo di lotta antimperialista o di guerre di liberazione dal (neo)colonialismo. Ormai anche questo tipo di presunta “guerra rivoluzionaria” si è spenta nella crescita di alcune nuove potenze e subpotenze; si pensi soprattutto alla Cina, all’India, ma infine anche al Brasile, alla Turchia e Iran ai nostri confini, ecc. Si tratta di società che hanno alcuni caratteri capitalistici, ma che non sono da ritenersi esattamente capitalistiche; ma nemmeno certamente socialistiche come alcuni cretini ancora definiscono Cina, Nord Corea, Cuba, e via farneticando. Tuttavia, nessuno conduce più un’analisi di teoria della società (gli studiosi seri sono tutti morti); per cui restiamo in questo momento nel limbo dell’arrangiamento di pseudoteorie, prive di un qualsiasi contenuto scientifico.

In ogni caso, propongo da tempo di “dimenticare” il termine “imperialismo”. In realtà, è re-iniziato, soprattutto in questo secolo, un nuovo periodo di crescita del multipolarismo, che ha tutte le caratteristiche per trasformarsi infine in policentrismo con regolamento dei conti per la supremazia mondiale. Non però, come credono altri “mentalmente subsviluppati”, in tempi brevi; ce ne vorrà ancora di tempo. Il bipolarismo (imperfetto) ha prodotto una sorta di “ritardo storico” di alcuni decenni, in cui nel cosiddetto primo mondo ha prevalso una lunga era di pace. Pian piano arriveremo a riporci nella situazione del conflitto multipolare, ma non tanto presto (almeno così credo). L’imperialismo è stata soltanto una particolare epoca multipolare e policentrica.
E’ comunque indispensabile che venga avanti una nuova generazione di studiosi seri, che spedisca sul serio in soffitta i “cattivi maestri” del ’68 e seguenti. Siamo ancora fermi, come analisi realmente scientifica, a quella di Marx del “capitalismo borghese” affermatosi con la prima rivoluzione industriale in Inghilterra. Pensate al ritardo ormai accumulato. Per carità, alcune analisi parziali ci sono state (in specie prima dell’avvento dell’orrenda e demenziale stagione sessantottarda). Tuttavia, ne abbiamo di strada da percorrere! Qualche idea credo di averla avuta, in particolare negli ultimi vent’anni; ma ho perso un’infinità di tempo a seguire (sia pure con atteggiamento critico) i “maledetti” del ’68, abbondantemente alimentati dalla nuova generazione politica ed economica dei dominanti. Questi continuano ancora adesso ad inquinare le acque, appoggiando pure dei torbidi “ultrarivoluzionari” (che si sono fatti fama a volte perfino con un po’ di galera), da me più volte paragonati ai “Demoni” di Dostoevskji. Speriamo che qualche giovane si liberi della nefasta influenza di questi autentici imbroglioni e pervertiti. Siamo in attesa del “miracolo”.

(di Gianfranco la Grassa)

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