PD: più che scissione, è un’emarginazione

Conviene, a questo punto della storia, fare una riflessione sul terremoto – l’ennesimo – che colpisce il Largo del Nazareno.

L’ Assemblea Nazionale del 19 febbraio ha emesso le sentenze che tutti i media hanno fatto rimbalzare di continuo. La più famosa è un vocabolo che a “sinistra” o comunque vogliate definirla, ben conoscono, dai tempi della caduta definitiva del PCI con quella che allora venne chiamata Rifondazione Comunista. Quale parola? Ovviamente “scissione”! Il terremoto, la fine del mondo.

Comunque, quella parte “estrema” della sinistra ha visto numerosi “cambiamenti” e aggiunte nel corso di 20 anni: la nascita di Sinistra Ecologia e Libertà, poi confluita in Sinistra Italiana e via discorrendo, fino a giungere, con il divorzio di qualche giorno fa, a questo sedicente Movimento Democratici Progressisti (pare che l’enigma del nome sia sciolto), guidati dai “rivoluzionari” Roberto Speranza ed Enrico Rossi.

Fuori dai giochi Michele Emiliano, che dopo aver minacciato ferro e fuoco insieme ai due di cui sopra il 19 febbraio, ha pomposamente dichiarato: “Resto e sfido Renzi alla segreteria”. Amore per la patria o semplice calcolo politico? Ininfluente la candidatura di Andrea Orlando, che sostiene di “giocare per vincere” (ma va?) ma che non muta molto il quadro generale: che ci fossero più pretendenti alla segreteria del partito era più prevedibile di una giornata di sole (almeno una) in agosto. E la “statura” di Orlando è talmente bassa che l’unica cosa che si può pensare è la seguente: un candidato di cartone per un’opposizione di cartone.

Facciamo un po’ di ordine: ma perché tutti parlano di scissione del PD sorprendendosi ed enfatizzando l’evento in questo modo? La questione, soprattutto per come si sono configurati i gruppi dopo la turbolenta Assemblea Nazionale non ha una vera ragione logica, eppure sembrano parlarne in pochi.

La ragione è semplice: nel PD non c’è stata una sola scissione negli ultimi anni, ma almeno tre.

La prima è la formazione di Possibile di Giuseppe Civati, un tentativo abbastanza triste di scimmiottare il Podemos iberico, nella speranza di poterne seguire i successi elettorali in terra spagnola. Perché nasce? Perché il suo fondatore, Civati appunto, non si trova d’accordo con la linea di partito di Renzi, ovvero il vincitore delle primarie del 2013 interne al PD, né tantomeno con quella di governo, in particolare sull’allora tanto discussa legge elettorale Italicum.

La seconda si chiama Sinistra Italiana. Perché nasce? Ma è chiaro, i suoi pilastri Alfredo D’Attorre, Stefano Fassina o Carlo Galli, “sorprendentemente”, non condividevano la linea del governo e del partito di Renzi, sempre vincitore su Bersani nel 2013 ma comunque incompatibile con i loro ideali “di sinistra” (quali resta un mistero, visto il continuo sposare immigrazioni di massa, privatizzazioni scellerate, europeismo becero, ma questi son dettagli).

La terza è quella a cui stiamo assistendo adesso. Il motivo? Che ve lo spieghiamo a fare! Speranza, Rossi ed Emiliano (ma il terzo più no che sì, anzi, forse e poi decisamente no) non condividono la linea di Renzi.

Tralasciando ogni considerazione curiosa sull’indubbia originalità che caratterizza tutte le scissioni del PD, la domanda che viene spontanea è: quali sono i risultati di queste moltitudini di minoranze interne al mondo dem che, sostanzialmente, vogliono guidare la linea di partito anche se la linea di partito è tenuta in piedi da una maggioranza che continua a non curarsi di loro, guardando e passando, per dirla alla Dante?

Pochi. Certo, elezioni serie non ce ne sono ancora state. Ma mentre Possibile promuove otto referendum e non raggiunge il numero legale di firme necessarie, Sinistra Italiana, nata in pratica dall’imminente scioglimento “ante-litteram” di SEL, viene già considerata una forza che, se va bene, prende il 2% dei voti nell’elettorato cosiddetto progressista.

MDP, DP o qualunque sarà il nome? Mistero, ma pare che il meccanismo sia sostanzialmente identico: anche qui abbiamo due o tre nomi di spicco che si sono allontanati. Qualche grande vecchio come Bersani e D’Alema, forse l’unica variabile interessante.  Secondo i sondaggi se va bene il PD potrebbe perdere il 3%.

Fa un po’ ridere che i due anziani di cui sopra generino partiti a loro dire di ispirazione “socialista” dopo aver svenduto per decenni tutta l’industria pubblica e creato liberalizzazioni come se fossero sorsi di acqua minerale non gassata, ma vabbè, a quello ormai siamo abituati.

Il punto pare essere un altro. Indipendentemente da come andranno le primarie e “scissione dopo scissione”, l’ operazione politica di Renzi sta, almeno ad oggi, sostanzialmente riuscendo, rinnovando di anno in anno il partito secondo dettami che li allontana da quelli di una “vecchia sinistra”, che tra l’altro di sinistra non ha nulla almeno quanto egli stesso (come i due anziani di cui sopra, approcci keynesiani a parole, ma nei fatti tutti i principi della globalizzazione, quindi l’immigrazione di massa, l’abolizione degli stati nazionali, le privatizzazioni selvagge eccetera). Ma questo lo sappiamo già.

A differenza di Renzi, la loro idea di progressione su tali temi è sempre stata basata su accordi e discussioni continue, sull’assoluta delegittimazione del vincitore – chiunque egli sia – in parole povere sul caos, ovvero l’unica tradizione politica di cui sono portatori da almeno vent’anni.

Certo, il nodo da scogliere, banalmente, è se Renzi la spunterà ancora una volta alle primarie. Probabile, ma meno certo di quanto si potrebbe pensare: se nessuno dei tre candidati raggiungesse il 50% a scegliere sarebbero i delegati dell’Assemblea Nazionale, e in quel caso una – pur remota – alleanza tra Emiliano e Orlando potrebbe profilarsi tagliando fuori l’ex-segretario (questo ammesso e non concesso che Orlando non costituisca un’opposizione di cartone, come sottolineavo in apertura).

Ma queste sono solo suggestioni al momento. Il vero nodo è la parola “scissione”, utilizzata impropriamente quando si parla della “sinistra”. Altro non è che l’ennesima emarginazione: e gli emarginati sono i “dissidenti del caos” che dipingono la storia dem degli ultimi 20 anni.

(di Stelio Fergola)