L’ipocrisia degli Oscar e le sue vittime: dalla Adams a Refn

Oscar e politica vanno di pari passo, chi segue il cinema lo sa, ed è costretto ad ingoiare il rospo. Meritocrazia ed Academy non vanno spesso d’accordo e, dopo un po’, ci si fa l’abitudine. Ne sanno qualcosa, per fare un esempio, i signori Stanley Kubrick ed Alfred Hitchcock, sicuramente tra i più grandi registi della storia del cinema, che, sembrerà assurdo, non hanno mai avuto l’onore di ritirare l’ambita statuetta alla regia. Al newyorkese infatti è stato attribuito un solo Oscar in carriera, agli effetti speciali, per quel capolavoro immortale di 2001-Odissea nello spazio (vergognosamente nemmeno candidato come miglior film). A Sir Alfred poi, è toccato un solo “Oscar alla memoria Irving G. Thalberg”, premio alla carriera e non alla singola opera.

Con tali premesse dunque, non sorprendono le esclusioni eccellenti, che si susseguono inevitabilmente ogni anno, portando una scia infinita di polemiche. E, parlando proprio di questi malcontenti, dopo la discussione assurda dello scorso anno sugli “Oscar so white” ecco che si è subito corso ai ripari, presentando ben tre film (Barriere, Il diritto di contare, Moonlight) a tinte fortemente “black”; influenzati tutti, chi più, chi meno, dal tema “discriminazione”.

Una scelta squisitamente politica, un inchino totale ai fenomeni da baraccone del politicamente corretto che, nonostante la popolazione nera americana, vale la pena ricordarlo, sia poco più del 10% e quella bianca non ispanica oltre il 70, vorrebbero, non si sa in nome di che cosa, vedere un’equa alternanza tra bianchi e neri nei film e nelle candidature dell’Academy. Assecondando quindi questa polemica, frutto di un pensiero razzista e distorto che premia in base al colore della pelle e non alla meritocrazia (un po’ come, in chiave di genere, il fenomeno quote rosa), ci siamo ritrovati una sfilza enorme di candidature a tema afro-americano, motivate, oltre che dalla buona qualità dei film in questione (che nessuno nega, ma che non basta per motivare certe preferenze), soprattutto da una sorta di vendetta per la passata edizione.

Ed è proprio questa vendetta ad aver lasciato una scia di sangue di esclusi illustri; vendetta, appunto, tema di uno di questi meravigliosi film vergognosamente snobbati, “Animali Notturni” di Tom Ford, che si è trovato vittima della reazione hollywoodiana, di quella “Revenge” che Susan, protagonista del film, leggeva in un quadro esposto in galleria. E la mannaia della politica ha colpito anche chi Susan la interpretava, una straordinaria Amy Adams, alla quale non sono bastate due performance di grandissimo livello, qui e in “Arrival” di Denis Villeneuve (candidato a 8 oscar) per rientrare nella lista delle candidate. È lei l’esclusa per eccellenza, sicuramente l’attrice del momento, sulla cresta dell’onda con due film tra i più apprezzati dello scorso anno che nulla hanno potuto però, per garantirle, magari non una vittoria, ma almeno una nomination.

Ma l’immagine, si sa, in certi ambienti è tutto, e la necessità di togliersi dal groppone quella puzza di Academy versione KKK ha fatto da padrone. Ecco, appunto, il mondo della borghesia vuota criticata da Tom Ford, e quello dell’immagine, della bellezza, dell’apparire; tema di un’altra straordinaria pellicola dello scorso anno, firmata Nicolas Winding Refn: The Neon Demon. Qui l’esclusione, soprattutto per i premi tecnici (fotografia, regia, colonna sonora) è davvero ai limiti dell’incomprensibile. Un film esteticamente perfetto, che ha nei colori, nei movimenti, nelle immagini, la sua forza assoluta (riconosciutagli anche da chi, magari, non l’ha amato) non può non meritare alcuna nomination. Troppo “so white” probabilmente Elle Flaning, così come Refn, Tom Ford ed Amy Adams.

Ma questo è tempo di Oscar, le polemiche sono normali e il politically correct sicuramente preventivabile. Di sicuro c’è, però, la consapevolezza che la storia spesso concede una “vendetta”, per tornare al tema. Conoscete il film “Oliver!”? È un musical, del 1968, basato su “Oliver Twist” di Dickens. Agli Oscar del ’69 si meritò la statuetta come miglior film, la categoria nella quale 2001-Odissea nello spazio non venne candidato. Il tempo, che non ha politica, ha sempre decretato il suo capolavoro, e continuerà a farlo.

(di Simone De Rosa)