Quei profughi (italiani) che non meritavano accoglienza: il treno della vergogna

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Il 10 febbraio è stato istituito dal 2005 come il Giorno del Ricordo. Fu in quel giorno infatti, che nel 1947 furono firmati a Parigi i trattati di pace tra le potenze alleate e le nazioni sconfitte nel corso della Seconda Guerra Mondiale per ridefinire i confini dell’Europa. Alla nostra nazione fu imposto, oltre alla restituzione di tutte le colonie, incluse quelle “acquisite” prima del Fascismo, la cessione di Fiume, Zara e buona parte dell’Istria alla Jugoslavia. L’acquisizione dei territori da parte di Tito comportò una sempre più forte repressione della popolazione italiana, inquadrabile in un complesso contesto di vendetta per le violenze subìte durante il Fascismo e di una campagna di annessione totale anche sotto il profilo etnico.

Aumentarono così coloro che fuggirono dalle terre un tempo italiane per trovare una nuova vita altrove, in madrepatria o all’estero: il numero di esuli istriani è stimato in 250.000. Centri urbani come Parenzo e Capodistria videro la fuga del 90% della popolazione italiana. Una repressione che non coinvolse solo i “fascisti”, ma anche oppositori politici del regime titino, italiani estranei alla politica e altri che invece avevano preso parte alla Resistenza.

Uno degli episodi che meglio rappresenta il clima di totale ostilità che circondava i profughi istriani (dalla propaganda comunista definiti come “fascisti in fuga“) e al contempo mostra come tutt’oggi si cerchi di minimizzare o negare che essi furono malvisti dalla maggior parte della popolazione, è quello accaduto il 18 febbraio 1947 alla stazione di Bologna, episodio passato alla storia come quello del “treno della vergogna”. Il 16 febbraio 1947 arrivarono ad Ancona da Pola i primi convogli navali carichi di fiumani, dalmati e istriani, che sarebbero poi stati caricati sui treni destinati ai porti di Bari, Venezia e La Spezia. Treni appositamente riservati a loro e marchiati con la scritta “esuli giuliani”.

Il treno per La Spezia, quel 18 gennaio, si sarebbe dovuto fermare a Bologna, dove la Croce Rossa aveva istituito una raccolta di beni di prima necessità. Avvisati in anticipo dell’arrivo del “treno dei fascisti”, come fu chiamato, i ferrovieri e gli operai bloccarono l’arrivo del treno minacciando lo sciopero di quello che all’epoca era il più importante snodo ferroviario italiano. Contro i profughi furono lanciati, al grido di “Fascisti!”, sassi e pomodori, e, in sommo spregio, fu rovesciato sulle rotaie il latte destinato ai bambini. Dopo ore di blocco, per prestare soccorso agli esuli reduci da un viaggio in treno di oltre 24 ore si fece ripartire il treno alla volta di Parma.

Un odio, quello contro gli istriani, che da tempo veniva seminato dalle colonne de l’Unità, che così già nel novembre 1946 scriveva: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori.” Colpevoli non solo di essere “fascisti”, dunque, ma anche di opporsi al totalitarismo titino.

Colpisce, arrivando oggi alla stazione di Bologna, una targa apposta a ricordo di quel giorno che, in maniera quasi beffarda, così recita: “Bologna seppe passare rapidamente da un atteggiamento di iniziale incomprensione a un’accoglienza che è nelle sue tradizioni”. La suddetta è stata apposta non all’indomani dell’episodio, ma bensì nel 2007, dall’amministrazione di Sergio Cofferati.

Accoglienza” che non risulta in nessuna testimonianza storica, e suona invece come una minimizzazione di un episodio vergognoso e tutt’altro che frutto di una “incomprensione”, ma di una propaganda feroce contro chiunque si opponesse all’ “alito di libertà […] degli eserciti liberatori“; in una regione, quella emiliana, che fino al 1949 fu attraversata da gravi episodi di violenza, tutt’oggi, per la maggior parte, messi a tacere.

 

(di Federico Bezzi)

 

 

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