“Globalismo e Sovranità”: come la globalizzazione ha fatto a pezzi l’Italia

 

“Il politico pensa alla prossima elezione, lo statista pensa alla prossima generazione”, dice in apertura, citando Alcide De Gasperi, Daniele Scalea del Centro Studi Machiavelli, organizzatore dell’evento.  E di statisti la politica occidentale ne produce ormai veramente pochi: una carenza che stiamo pagando a caro prezzo.

Tutti i limiti in fila, uno per uno, della globalizzazione. O “globalitarismo” come lo definisce polemicamente Marcello Veneziani, paragonandolo al totalitarismo, il grande fenomeno ideologico del XX secolo.

Vengono illustrate con una chiarezza inquietante le ragioni del crollo dell’Italia e della sua cultura. Un senso di comunanza ha pervaso così la conferenza alla Sala del Cenacolo della Camera deputati. Presenti anche Ettore Gotti Tedeschi, Alberto Bagnai, l’onorevole Guglielmo Picchi, e Dario Citati che, come Scalea, fa parte del “Machiavelli”.

Professionisti e studiosi provenienti da culture politiche diverse, uniti in una critica comune. Bagnai, verso la fine della conferenza, ci scherzerà su commentando Veneziani: “Io vengo da sinistra, vent’anni fa non avrei mai pensato di poter concordare con lui”.

L’obiettivo dichiarato dal convegno è annunciato dagli organizzatori: aprire un “pensatoio” sul tema che è stato chiuso per troppo tempo. La globalizzazione ha portato ad un impoverimento enorme dei ceti medi, oltre che della società in generale.

L’intervento più ricco e chiaro nella spiegazione di ciò che è successo è quello di Ettore Gotti Tedeschi. L’economista tratteggia i passaggi della crisi che ha messo in ginocchio l’Italia in quattro fasi: la fine della crescita demografica negli anni Settanta, il passaggio da un’economia mista al modello delle privatizzazioni, la perdita di sovranità monetaria e il “colpo di grazia” della crisi economica iniziata nel 2008. “Se la popolazione non cresce, il PIL non può più continuare a fare altrettanto. Non solo, nel lungo periodo una demografia “zero” si traduce in maggiori spese per lo Stato, perché la popolazione lavorativa diminuisce mentre aumentano i sussidi pensionistici e i costi assistenziali. Invito chiunque sia qui dentro a dirmi come si possa continuare a prosperare in una società che non fa più figli”.

Poi le privatizzazioni degli anni Novanta. Fino al 1993 l’Italia aveva un’economia tenuta in piedi al 65% dallo Stato, e le banche private erano circa lo 0,7%. Le conclusioni sono ovvie: “Impossibile pensare che le imprese privatizzate sarebbero potute rimanere tutte nazionali, semplicemente perché gli imprenditori privati italiani erano troppo pochi e abituati a lavorare in un regime a concorrenzialità limitata. L’esempio tipico è la Telecom: è stata comprata per tre volte, le prime due in Italia a cifre irrisorie, prima di cadere definitivamente in mano straniera”.

Le banche privatizzate hanno giocato un ruolo decisivo. Il sistema italiano era di fatto pubblico, e costituiva una voce importantissima di un risparmio che, dagli anni Settanta fino al 2000, si è contratto di circa il 20%: il motivo sono le tasse, ovvero l’unico modo per finanziare una società sempre più costosa e sempre meno prolifica.

Fare una colpa a un “sistema Paese” dalla forte economia statale per non essere riuscito ad adeguarsi ad un modello che non solo non le apparteneva storicamente, ma al quale è stato anche di fatto costretto ad aderire, in altre parole, non ha nessun senso logico.

Nella seconda fase, dice Tedeschi, avviene la de-industrializzazione. “Se questo telefonino realizzato in Italia mi costa 100, ma lo vado a produrre in Cina, lo potrò vendere alla metà, ma se lo faccio sto de-localizzando e quindi de-industrializzando il Paese, impoverendo i miei lavoratori o non assumendone di nuovi, con tutto ciò che ne consegue”.

Da qui un’osservazione che, nella sua semplicità, in pochi hanno avuto la lucidità per fare in questi ultimi tempi. Il riferimento è alle mosse Trump che “non sono protezionismo, ma semplice recupero del lavoro interno, dell’idea di piano industriale. Il protezionismo era una cosa ben diversa”. L’Unione Europea e la crisi danno la mazzata finale alla già gravemente compromessa economia italiana.

Un sistema che per Veneziani ha subito anche l’onda di una cultura anti-nazionale: “Anche nelle fasi di crescita, nei primi decenni della Repubblica, non c’è stato un vero piano collettivo e un’idea di Italia”. E poco dopo, il politicamente corretto e l’ideologia globalitarista si sono fatte largo: “Qualsiasi cosa riguardasse il concetto di limite, di differenze, di confine, di popoli è stato spazzato via da un’ideologia che ha avuto come unico portabandiera l’annullamento di tutto in nome del mercato e del consumo. Un modo di vedere la realtà enormemente soffocante perché contrario a quello che recepisce l’uomo nella sua natura”.

Alberto Bagnai successivamente si chiede: “Quelli che in certi schieramenti politici ci propongono l’uomo anfibio, consumatore che sguazza da un confine all’altro e che vedono la sovranità come un idolo polemico negativo, si sono mai posti il problema di chi comanda? È un problema semplice: se non governa nemmeno formalmente il popolo, è chiaro che il potere va a chi “ha i sordi”.”

Ma chi “ha i sordi” in questo momento è in difficoltà. La reazione di massa si è palesata con l’elezione di Donald Trump, proprio nel Paese che si è fatto principale portabandiera di un sistema votato alla globalizzazione.

Quello che succederà è ancora nell’ambito della totale incertezza. Ma che ci possa essere una “svolta epocale”, come l’ha definita Veneziani, non è da escludere per nulla. E le prossime elezioni in Francia potrebbero giocare un ruolo decisivo.

(di Stelio Fergola)