A vent’anni dalla morte di Giorgio Pisanò, giornalista d’assalto

Estate del 1962. La giovane Italia repubblicana vive il fiore dei suoi anni di prosperità economica e mutamenti sociali, lasciandosi alle spalle, pare definitivamente, la tragica esperienza bellica. Mentre due cavalli di razza quali la FIAT e l’ENI trainano il carro del prodotto interno lordo, la politica italiana è guidata da due splendenti, quanto effimere, “comete”: Antonio Segni presidente della Repubblica, eletto a maggio; e Amintore Fanfani presidente del Consiglio, incaricato a febbraio di formare il suo quarto, brevissimo governo.

È un momento di relativa quiete tra una tempesta di piombo ormai lontana, e un’altra che da lì a pochi anni sarebbe iniziata. Appare in questo periodo, nelle sole librerie milanesi, un volume di poco più di 300 pagine. La copertina è forte, cruda: la fotografia un soldato in camicia nera riverso a terra, attorniato da uomini armati che ne indicano il cadavere con scherno e disprezzo. Il titolo di impatto, degno di un thriller: Sangue chiama sangue, Edizioni Pidola.

Autore di quel libro, che vedrà 19 edizioni e segnerà una svolta nella storiografia italiana, è un astro nascente del giornalismo: Giorgio Pisanò, all’epoca inviato del settimanale “Gente” di Emilio Rusconi. Nato nel 1924 a Ferrara, Pisanò vive tre esistenze, tre dimensioni distinte eppure tra loro inscindibili: è il giovane miliziano della X° M.A.S. e della Brigata Nera “Blas Biagi” che combatte sul Ridotto Alpino fino a tre giorni dopo la Liberazione; è il politico appassionato e ostinatamente dalla parte sbagliata, che contribuisce a fondare il MSI di Giorgio Almirante e ne diventa Senatore dal 1972 al 1991; è, in ultimo, un giornalista d’assalto, che ama sondare i misteri non solo dei seicento giorni di Salò, ma anche di quelli che infangheranno la nostra democrazia: la morte di Enrico Mattei, l’omicidio di Roberto Calvi, la loggia eversiva del suo ex camerata Licio Gelli. Storico, no, non lo fu mai, per sua stessa definizione.

“Chi sparò il primo colpo della guerra civile?”. È la domanda con la quale Pisanò apre il suo libro Sangue chiama sangue, il primo di quattro che l’autore dedicherà al periodo che va dal 25 luglio 1943 agli ultimi sprazzi del 1949, quando nel centro-nord italiano, dagli storici ribatezzato “il triangolo della morte”, si consumavano centinaia di omicidi politici e vendette personali anche ben dopo la fine del conflitto.

Il giornalista delinea la responsabilità non dei partigiani in toto, ai quali non negherà mai la dignità di avversari (curiosamente, uno dei più stretti collaboratori nelle sue inchieste fu l’ex gappista Fulvio Bellini), ma alla frangia del Partito Comunista Italiano; senza tuttavia glissare sulle rappresaglie fasciste e naziste, che analizza sia nelle loro cause che nelle loro conseguenze, ma condanna comunque senza appello.

Rivediamo il contesto italiano nella seconda metà del 1943: i veri protagonisti del conflitto sono le potenze dell’Asse e gli alleati angloamericani; i primi cercano di tenere salda la loro posizione nell’Italia del nord e del centro, mentre le truppe alleate salgono prepotentemente da Sud; il Regno d’Italia, ora governato da Badoglio, vive nella psicosi di dover “rassicurare” l’alleato tedesco al tempo stesso trattare la resa con gli Alleati, che avverrà nel settembre dello stesso anno.

Dopo Cassibile, si aggiungono al teatro bellico italiano altri due protagonisti, poco influenti sulle sorti del conflitto (tutti sanno che la vittoria angloamericana è già scritta), ma determinanti nella “guerra civile” italiana: la RSI del redivivo Mussolini, uno stato alle dipendenze della Germania che tuttavia rappresenterà l’ultimo tentativo del Duce di creare un suo stato socialista e corporativista, e il CLN, il comitato che raggruppa al suo interno tutte le forze politiche antifasciste.

Per rispondere alla domanda dell’incipit di Sangue chiama sangue, Pisanò trova il filo conduttore in quattro omicidi “eccellenti” avvenuti tra il novembre 1943 e il febbraio 1944: quelli dei federali fascisti Ghisellini, Resega, Facchini e Capanni, rispettivamente di Ferrara, Milano, Bologna e Forlì.

Quattro omicidi casuali, quattro città casuali? Assolutamente no. I quattro uomini erano accomunati, oltre che dalla carica, anche dalla loro posizione all’interno del Partito Fascista Repubblicano: erano delle “colombe”, elementi “moderati”, spesso invisi ed osteggiati dai membri più estremisti del loro stesso partito, più attenti a mantenere l’ordine pubblico che a eseguire operazioni repressive. A loro volta, le città che reggevano conservavano ancora una ottima fedeltà al regime di Mussolini.

Ghisellini in particolare, federale di Ferrara (la città di Italo Balbo) aveva già incontrato presso un avvocato i membri del CLN cittadino (assente solo il rappresentante del PCI) per sottoscrivere un accordo che impegnasse entrambe le parti a non attaccarsi in armi a vicenda.

L’ omicidio di Ghisellini avvenne la notte del 13 novembre, un giorno prima del congresso veronese del PFR, ad opera di tre partigiani legati al PCI. Obiettivo di questo omicidio, ottenere (come poi avvenne) una reazione violenta dei fascisti, che si riversò soprattutto su elementi antifascisti non comunisti, noti alle forze dell’ordine e spesso appartenenti alla piccola-media borghesia, dunque facilmente rintracciabili ed eliminabili.

La politica di pacificazione di Ghisellini rischiava, secondo chi pianificò l’attentato, di “mettere in pericolo l’unità raggiunta dai movimenti antifascisti”, dunque di non condurre, come nei piani, a una lotta armata vera e propria. L’omicidio di Ghisellini, come degli altri tre, fu rivendicato su L’Unità, il giornale allora clandestino del PCI, ma venne sparsa la voce che in realtà la sua morte fosse da ascrivere a faide interne al PFR, per i motivi scritti prima: la sua eccessiva propensione al dialogo con gli “insorti” e la mancanza di volontà di attuare una efficace repressione.

Una versione distorta della realtà che faceva comodo a entrambe le parti: i fascisti potevano così celare all’opinione pubblica l’esistenza di una resistenza armata, e al contempo piazzare nei posti di potere gli elementi più violenti; i partigiani invece potevano usare a loro vantaggio la teoria di un complotto fascista ai loro danni.

Un modus operandi che verrà ripreso per gli altri federali assassinati. Pisanò si concentra molto sul teatro bellico emiliano, e su come il PCI, anche dopo la fine del conflitto, tentò di gettare le basi per una rivoluzione comunista tanto auspicata quanto inattuata, e della scia di morte che ne conseguì, e che non risparmiò neanche ex partigiani appartenenti a formazioni cattoliche, liberali o socialiste. Dopo Sangue chiama sangue Pisanò approfondisce l’argomento in Storia della guerra civile in Italia (Edizioni Pidola, 1965) e, decenni più tardi, nel completissimo Il triangolo della morte (Editore Mursia, 1992).

Questi ultimi due libri hanno fornito le basi per un futuro bestseller, Il sangue dei vinti di Gianpaolo Pansa, uno dei cardini del revisionismo storico della seconda guerra mondiale in Italia. Un revisionismo imperfetto e non sempre imparziale, né scevro di un demagogico anticomunismo barricato sulle sue posizioni, figlio dei suoi tempi di “opposti estremi” e certamente oggi inattuale, ma comunque importante nello scardinare un monopolio della narrazione storica scritto esclusivamente dai vincitori.

Pisanò, però, ha il pregio di affinare sempre più il tiro con il passare degli anni, e Il triangolo della morte, una delle sue ultime opere, si mostra certamente come il lavoro più dettagliato e preciso, laddove Sangue chiama sangue non riportava sempre tutti i fatti in modo accurato; ma, per la sua importanza e il suo pionierismo, merita comunque una lettura, pure cum grano salis.

Appeso al chiodo il moschetto, il fascista Pisanò – non rifiuterà mai egli stesso di definirsi tale – passa a combattere sulla carta stampata. Dopo la sua esperienza di inviato per l’editore Rusconi, il primo a commissionargli le inchieste sul “Triangolo della morte”, il giornalista fonda nel 1963 il settimanale Secolo XX, e nel 1968 compie il grande passo acquistando il Candido, la creatura di un altro mostro del giornalismo italiano, Giovannino Guareschi, ormai impossibilitato a proseguire la sua attività per la sua salute fortemente debilitata dal carcere (sarebbe morto nel luglio di quello stesso anno).

Secolo XX e soprattutto Candido saranno per lui vere e proprie armi con le quali non solo offrire una voce decisamente fuori dal coro nel panorama editoriale italiano, ma anche plasmare la linea politica della destra. Ma l’importanza della direzione editoriale di Pisanò, il suo fiuto di cronista, si rivela soprattutto nelle inchieste più scottanti.

Tra gli scandali italiani che tratterà sulle sue colonne (scandali di corruzione e bancarotte fraudolente in aziende pubbliche), la più importante è quella sulla morte di Enrico Mattei. Il magnate degli idrocarburi, morto nel 1962 sul suo aereo presso un piccolo paese di Pavia, è al centro dell’attenzione di Pisanò e dei suoi collaboratori, Fulvio Bellini e Alessandro Previdi, che dal Secolo XX, nel 1963, lanciarono l’ipotesi di un attentato dinamitario: una “teoria del complotto” (già le inchieste militari avevano decretato la natura non dolosa dell’incidente di Mattei) che troverà conferma solo decenni più tardi, quando le analisi eseguite a metà anni ’90 rileveranno la presenza di residui di esplosivo sul corpo di Mattei e sui resti dell’aereo.

Previdi e Bellini, autori poi del libro L’ assassinio di Enrico Mattei, pubblicato a proprie spese nel 1970, contribuiranno a produrre il film Il caso Mattei di Francesco Rosi; i due autori scoprono la presenza, all’aeroporto di Catania da dove partirà l’ultimo volo del magnate, di tre uomini in divisa militare che allontaneranno con un pretesto il pilota Irnerio Bertuzzi. Su chi potesse essere il mandante dell’omicidio di Mattei si sono sprecate ipotesi che tutt’ora non hanno trovato conferma, e su cui sono stati spesi anni di processi, ma ciò che conta sottolineare è il contributo del giornalista ferrarese e dei suoi collaboratori nello svelare una storia italiana che avrebbe viceversa rischiato di restare nel mistero più totale.

Giunto ormai settantatreenne, scritti i suoi ultimi due libri (Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, una indagine sulla morte del Duce e l’oro di Dongo, e l’autobiografia Io, fascista, entrambi editi da Il Saggiatore), Pisanò perde la sua ultima battaglia contro un cancro ai reni nell’ottobre 1997, vent’anni orsono.

La sua ultima creatura, abbandonato il MSI per gli scontri con Gianfranco Fini, è un piccolo partito chiamato “Movimento Fascismo e Libertà”, a conferma della tenacia e del decadente romanticismo del suo fondatore, mai arreso all’idea della morte dei suoi ideali, né a quanto sia cambiato il mondo dai tempi della repubblica lacustre di Mussolini. Resta tuttavia attuale la sua investigazione storica, la sua voglia di andare oltre alla verità scritta nella pietra, e si, anche l’irriverenza verso i vincitori, tipica solo di chi ha abbracciato, senza rimorso alcuno, la causa dei vinti.

(di Federico Bezzi)