L’anti-italianismo nella musica: quando “l’inno del vicino è sempre più bello”

“L’erba del vicino è sempre più verde”. Il detto ben riassume un comportamento tipico del cittadino italiano che lo esercita con rigore quasi marziale in ogni campo; e all’adagio non sfugge nemmeno una delle cose più sacre che un Paese possieda, ovvero l’inno nazionale.

E se, nei versi del nostro “canto degli italiani”, “l’aquila d’Austria le penne ha perdute” non hanno purtroppo subito medesima sorte i soliti noti paladini dell’anti-italianità, o meglio, quel mostro, quel nemico che ci si staglia davanti con parvenza invincibile che è il virus dell’autodenigrazione.

Conosciamo bene tale patologia, è tipicamente italiana e comporta una sintomatologia che consiste nello sminuire, per posizione presa, ogni caratteristica o tipicità della propria nazione. Capita da decenni, e con frequenza incessante, ad esempio, di sentir denigrare l’inno di Mameli con le più svariate delle accuse: testo eccessivamente retorico, di difficile comprensione o messa in musica completamente sbagliata, troppo simile ad una “marcetta”.

Il tutto potrebbe essere accettabile se restasse nella sacrosanta e inviolabile sfera dell’opinione personale. Quella che ne viene fatta però, dagli infetti di cui sopra, pare essere una questione di testimonianza del verbo biblico, delineando una fantasiosa netta inferiorità rispetto agli altri inni o addirittura arrivando al punto di invocarne la sostituzione.

Ecco, questa ipotesi che ben ricorderete era stata sollevata qualche anno fa. Ancora oggi non può che essere presa con un compassionevole sorriso tant’è l’infondatezza e la resa patetica della richiesta; a maggior ragione se si pensa che l’alternativa prospettataci era il pur meraviglioso Va’ Pensiero del Nabucco di Giuseppe Verdi che però  (magari qualcuno non l’ha ascoltato bene), è profondamente malinconico e, soprattutto, ha come tema la diaspora ebraica.

Tralasciamo dunque questa fantascientifica e, francamente, risibile opzione e concentriamoci sulla presunta inferiorità che “il canto degli italiani” avrebbe nei confronti dei suoi corrispettivi stranieri. Ebbene, a chi accusa il testo di avere un carattere retorico andrebbe chiesto quale inno non lo abbia, né tantomeno si può dire che sia eccessivamente banale perché la verità è che se si analizza lo scritto di Goffredo Mameli ne esce fuori una ricchezza di riferimenti, di situazioni e anche una complessità stilistica che lo rendono, senza ombra di dubbio, uno dei testi più complessi per quello che riguarda la categoria degli inni nazionali (avete mai provato ad analizzare, ad esempio, il testo dell’ormai amputato inno tedesco?).

Per quanto riguarda invece la messa in musica di Michele Novaro non c’è molto da dire se non che rispecchia una tradizione musicale e che ben si collega al testo “battagliero” di Mameli. Ma la musica è un bene intangibile e non può, come si può fare (seppur in minima parte) con il testo, essere posto al parametro dell’oggettività.

Ci affidiamo allora a qualcuno della cui autorevolezza l’esterofilo di casa nostra non può dubitare, ovvero gli stranieri. Sì, perché, non ci crederete, all’estero l’inno italiano è apprezzatissimo e riscuote di grande successo nell’opinione pubblica e in quella degli esperti. Il Telegraph, per esempio, ha stilato in occasione dei Mondiali di calcio del 2014 una classifica dei migliori inni al mondo regalando all’Italia la settima posizione.

La BBC, ancora, ha inserito l’inno di Mameli nel suo articolo sugli inni più belli e, per ultimo, ha rincarato la dose USA Today che in occasione di RIO 2016 ha messo la nostra vituperata “marcetta” al sesto posto. Un corto circuito ideologico evidente per i decantatori della solita stantia apologia dello straniero.

Che all’estero siano ferrati in campo musicale in fase di composizione e siano poi delle “pippe” in fase di ascolto? Inoltre, quand’anche il “canto degli italiani” non fosse di vostro gradimento, non basterebbe dunque la sua storia per evitare queste assurde discussioni? Scritto da un patriota rivoluzionario, cantato durante le fasi cruciali del Risorgimento, durante la spedizione dei Mille, gli scontri con gli austriaci e ancora durante la “Grande Guerra” (nonostante l’inno ufficiale fosse la marcia Reale).

Non è sufficiente tutto questo vissuto a far superare lo scoglio di un semplice gusto personale? Beh, sembra proprio di no, e la ragione è forse che l’inno è vittima di un grosso ed incolmabile difetto, che non è musicale né tantomeno lessicale, ma culturale, ed è la profonda anti-italianità di alcuni italiani alla quale nessun Novaro, ma nemmeno nessun Alexandrov, può porre rimedio.

(di Simone De Rosa)