La frontiera e il Socialismo

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In questi tempi di confusione e di decadenza si sente spesso criticare la frontiera come limite controllato fra stati sovrani. Papa Francesco ha inveito contro il “muro” fra gli Stati Uniti e il Messico, vari politici europei hanno criticato le frontiere, sia quelle interne all’UE (che in teoria, non dovrebbero nemmeno esistere), sia quelle esterne. Nei media si percepisce chiaramente un’insofferenza, un’ostilità alla frontiera, come se la stessa idea di controllare i confini fra stati sia divenuta improvvisamente “brutta e cattiva”. Insomma, che da sempre, dovunque, siano esistite frontiere, che si siano difese a costo di sangue (pensiamo ai “sacri confini della Patria”, per cui combatterono i soldati italiani nella Grande Guerra), sembra non importare alla classe politica e alla élite che controlla i media.

Da dove viene questo ripudio all’idea di frontiera? Dall’ideologia liberale, riflettendo le logiche strutturali del capitalismo. Il liberalismo, da Adam Smith in poi, ha sempre considerato le barriere come un impaccio per libera circolazione dei mercanti e delle merci. Per estensione, siccome la visione antropologica dei liberali è mercatocentrica, gli uomini -intesi come individui agenti in un mercato- dovrebbero essere liberi di spostarsi senza barriere di sorta.

Naturalmente questa è un’utopia che, concretamente, non fu mai possibile realizzare storicamente. Inoltre la classe borghese, che aveva assunto il liberalismo come ideologia consona ai propri interessi e alle proprie ambizioni, doveva prima consolidarsi nell’ambito degli stati nazionali e degli imperi coloniali. Per cui durante tutto il XIX secolo e fino a metà del XX, le frontiere furono ben definite, e difese anche da parte “liberale”.

La Prima Guerra Mondiale rappresenta un’apogeo dell’idea di frontiera, la cui difesa o modifica in vista della “Vittoria” costò milioni di vite. Nel frattempo nel 1922 erano sorti nuovi stati post-liberali: l’Unione Sovietica e l’Italia fascista, una seguendo un modello socialista marxista, e l’altra un modello di socialismo nazionale. Entrambe rafforzarono i propri confini, consapevoli che uno stato che si rispetti e che voglia sopravvivere, deve obbligatoriamente difendere i propri limiti esterni. Ancor più se si propone di costruire un nuovo modello di società.

L’Unione Sovietica tracciò i propri confini dopo la vittoria nella guerra civile e la sconfitta nella guerra russo-polacca. Dall’altra parte gli stati confinanti con essa fecero altrettanto, convertendo il limite fra il primo paese socialista del mondo e gli stati “capitalisti” in una frontiera chiusa quasi ermeticamente. La Russia bolscevica, specialmente da quando Stalin assunse il potere, divenne poi un paradigma per tutti i futuri stati socialisti. La pressione e la minaccia degli stati capitalisti, e la rivalità con questi, sempre fu uno stimolo a mantenere le frontiere ben tracciate e ben vigilate.

Lo scoppio della guerra germano-sovietica diede ragione a chi aveva insistito nel tracciare una rigida frontiera, anche se questa non fu in grado di fermare l’invasione. Dopo la guerra vittoriosa, l’Unione Sovietica estese il suo territorio all’Europa orientale, tracciando un nuovo confine fra il mondo socialista e il mondo capitalista, che si conosce come “Cortina di ferro”. Dal 1946 al 1989 fu un limite praticamente impenetrabile che correva dal Mar Baltico al Mar Nero.

I nuovi stati socialisti fecero altrettanto, tracciando confini ben vigilati. La Cina di Mao ebbe una sua “Cortina di bambù” dove confinava con stati non-comunisti. La Corea del Nord tracciò il suo confine militarizzato -ancor oggi esistente- con la Corea del Sud. Cuba dopo la rivoluzione, essendo un’isola, fu efficace e zelante nel difendere le proprie acque territoriali, e tracciò una frontiera terrestre invalicabile con l’enclave di Guantánamo.

Attraversare la frontiera di uno stato socialista è sempre stato difficile e pericoloso. Chi pretendesse di farlo illegalmente attraversando fili spinati, torri di vigilanza con lampade e mitragliatrici, campi minati e pattuglie armate, rischiava letteralmente la vita o poteva essere arrestato e gettato in prigione. Uscire o entrare da Cuba significava il rischio di affogare o essere catturati in mare. Insomma, tutti gli stati socialisti hanno sempre difeso a spada tratta le loro frontiere. Sono gli stati capitalisti che non le vogliono.

Da parte “occidentale” si è sempre criticata la rigidità delle frontiere del socialismo come un ostacolo alla “libertà” di movimento personale ed economico. Ma è ovvio: il capitalismo punta a massimizzare i profitti nell’ambito della produzione e dello scambio, per cui vede le frontiere come un ostacolo. L’ideologia liberale riflette tale interesse rafforzando la difesa della libera circolazione degli uomini e delle idee come parte integrale dei loro diritti fondamentali.

Il “liberismo” o “neoliberalismo”, porta all’estremo questa visione, proclamando la supremazia del mercato globale come modello da applicare in ogni ambito della vita sociale, frontiere comprese. Nel concreto, al capitalismo serve poter muovere liberamente le merci, compresi gli uomini, considerati anch’essi come un bene economico, una “risorsa” come si suol dire oggi. La logica di questi movimenti risponde esclusivamente a un calcolo di costi e benefici, per cui, per esempio, se il lavoratore nativo “costa” troppo (alti salari, diritti acquisiti, spirito combattivo), i capitalisti cercano di importare mano d’opera da fuori per abbassare i costi, creando una feroce competizione nel mercato del lavoro.

È il noto “esercito industriale di riserva” ben descritto da Marx (e prima ancora da Engels). Le conseguenze negative di allentare o eliminare le frontiere sono sotto gli occhi di tutti, e fanno parte della cronaca quotidiana. D’altronde l’esistenza delle frontiere risponde non solo all’esperienza storica, ma anche al semplice buon senso. Per continuare a esistere qualsiasi società deve tracciare e difendere un confine che separi coloro che ne fanno parte da chi ne è estraneo. E per entrarvi gli estranei devono essere autorizzati mediante documenti di identità e permessi.

Un ipotetico mondo “senza frontiere” sarebbe come una città dove tutte le case fossero prive di porte, portoni e cancelli di ingresso, con la conseguenza che, siccome gli esseri umani non sono tutti “buoni” e rispettosi degli altri, molte case sarebbero sicuramente saccheggiate ed occupate.

In definitiva, l’esperienza storica del socialismo, nonostante l’idea marxista della comunanza degli interessi e le aspirazioni dei lavoratori in tutto il mondo, non ha mai implicato l’abolizione delle frontiere. Anzi! Gli stati socialisti hanno difeso le loro frontiere appassionatamente, per difendere le conquiste dei lavoratori, per proteggere i popoli dalle aggressioni esterne e per impedire il ritorno del capitalismo dove questo era stato abolito.

(di Franco Savarino)

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