Calciatori politicamente scorretti: Paolo Di Canio

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“Sono un vincente? Sono un perdente? Non lo so. Quello che so è che sono uno che lotta”

Pronunciare il nome di Paolo Di Canio evoca, di primo acchito, un elenco di altri termini: saluto romano, West Ham, Lazio, caparbietà, provocazione, collera, personalità, sfrontatezza, odio, autenticità. Il “personaggio” Di Canio è l’uomo che fuori dal campo ha catturato l’attenzione di media e tifosi italiani, scozzesi e inglesi con la schiettezza tipica del romano di periferia. Qualcuno estremizzerebbe il concetto con il termine dialettale “coatto”, ma nel caso di Di Canio è un appellativo che fin troppo riduttivo.

Il calciatore Di Canio è stato l’uomo capace di trascinare squadre e tifosi, di vivere ogni partita come una battaglia campale ma leale, senza dimenticare una tecnica di gioco di tutto rispetto e un’ottima disciplina tattica. Non ha mai sfondato il muro che divide buoni e grandi giocatori dai campioni, anche a causa del suo carattere irascibile e mai incline al compromesso. L’allenatore Di Canio, invece, non è ancora riuscito ad emulare il successo del calciatore e forse la figura di guida a capo di un gruppo, di psicologo, non si abbina ad una personalità fin troppo… vulcanica. Vulcano, non a caso, è il soprannome che gli affibbiarono i media inglesi dopo la famosa spinta all’arbitro Paul Allcock.

“Ecco perché avevano costruito il Quarticciolo. Avevano bisogno di un posto dove stipare corpi e questo faceva al caso loro”

Le umili origini, la vita di un bambino al Quarticciolo, quartiere periferico e popolare di Roma Est, la famiglia numerosa, le radici mai dimenticate. Nella sua autobiografia Di Canio affronta senza remore tutte le tappe che hanno segnato il suo cammino di uomo e calciatore. Il libro scalza subito dalle classifiche le numerose e spesso sciatte biografie degli sportivi mondiali. “Spazza via le abituali sciocchezze e le banalità servite dai calciatori… un libro esplosivo”, recitavano i tabloid e i giornali inglesi. E non può essere altrimenti con un soggetto fuori dal comune a cui sicuramente non mancano doti come originalità e spontaneità.

Le improvvisate partite a calcio in un’infanzia vissuta tra stenditoi e grigi palazzi tutti uguali segnano l’inizio di un film da raccontare. Il padre muratore, sua madre casalinga, il quarto di quattro fratelli, la storia di Di Canio è nuda e cruda sin dalle origini. Prendere o lasciare, come tutta la sua vita. “Pallocca” era il suo soprannome da ragazzino, nomignolo che rimandava alla rotondità del suo fisico. Il Quarticciolo sarà una scuola di vita per Di Canio, una dura palestra quotidiana che lo forgerà fino al primo approdo alla Lazio. La scelta di tifare sin da bambino la squadra meno “mainstream” della capitale è una conferma della sua inclinazione perennemente bastian contraria.

“Chi mena per primo mena du’ vorte”

Di Canio inizia a giocare nelle giovanili della Lazio, ma la sua indole sanguigna non disdegna la militanza in curva. Con gli ultras della Nord si reca spesso in trasferta e partecipa attivamente anche agli scontri con le tifoserie avversarie, insieme agli “Irriducibili”, rischiando di compromettere la sua carriera. Durante il periodo di prestito alla Ternana conosce la sua futura moglie (Betta), una guida fondamentale nella sua vita dal quale non si separerà mai più. Rischia seriamente di perdere una gamba per via di un’infezione al tendine, ma se la cava grazie ad una… guaritrice.

Il 15 gennaio del 1989 segna un gol storico alla Roma, in un derby, e d’istinto esulta sotto la curva avversaria. Un episodio che lo eleva a re indiscusso nella tifoseria laziale e a nemico numero uno in quella romanista. In piazza di Spagna è in macchina con due amici di infanzia quando incrocia un’altra vettura, con a bordo alcuni tifosi della Roma che lo minacciano. I due gruppi si fronteggiano e se le danno di santa ragione fino all’arrivo della Polizia. I due amici di Di Canio, romanisti anch’essi, lo invitano a scappare per evitare l’identificazione, lui tentenna e poi fugge tra i vicoli di Roma. Dell’episodio nessuna saprà nulla nei giorni successivi.

“Più lontano sto da Capello, meglio è”

Il rapporto tra gli allenatori e Di Canio è sempre stato controverso. Alla Juve il giocatore romano non ha alcun tipo di attrito con lo stravagante Maifredi, ma con Trapattoni il rapporto diventa burrascoso. Passa al Napoli dove incontra Lippi che riesce a gestirlo con sagacia, poi al Milan. Con Capello si arriva addirittura alle mani. Cala, per il momento, il sipario di Di Canio in Serie A. Di Canio sceglie di andare in Scozia, al Celtic Glasgow. E’ il suo habitat naturale e si trova subito a suo agio con lo spirito combattivo degli scozzesi. Viene nominato giocatore dell’anno e si presenta alla premiazione in kilt suscitando l’ovazione dei presenti.

“Ho un profondo rispetto per il paese che mi dà da mangiare”

E’ il 1997, il momento del trasferimento in Inghilterra. Allo Sheffield Wednesday insieme a Benny Carbone forma il duo italiano della squadra, ma nella perfida Albione la diffidenza verso i giocatori d’Oltremanica, peggio se italiani, è latente. Con il tecnico Atkinson volano parole grosse, mentre con Wilson il rapporto è quasi nullo. In quella stagione Di Canio si rende protagonista di un episodio che rovinerà la sua reputazione in Premier League: in Arsenal-Sheffield, dopo un litigio con Vieira, viene espulso dall’arbitro e lui reagisce spingendo il direttore di gara che cade goffamente. La sanzione è pesantissima, 11 giornate di squalifica. Una punizione addirittura più pesante rispetto a quella comminata a Eric Cantona che qualche anno prima aggredì un tifoso in tribuna con un violento calcio.

A gennaio del ’98 è il momento di lasciare lo Sheffield per il West Ham, un club che gli rimarrà nel cuore per sempre. Con il tecnico Redknapp instaura un buon rapporto, con i tifosi degli Hammers il legame è fortissimo. Riceve il premio Fair Play per aver rifiutato di segnare un gol all’Everton, dopo aver visto il portiere a terra e dolorante. E’ il capitolo che lo riabilita del tutto in terra inglese, ma lui non vuole agiografie: “Prima non ero un diavolo, adesso non sono un santo”.

“Sono nazionalista e patriota”

Non ha mai nascosto i suoi ideali, anzi, li ha messi in mostra in mondovisione. Si dichiara profondo estimatore di Benito Mussolini, ma rifiuta categoricamente l’etichetta di razzista. Nel 2004 ritorna alla Lazio decurtandosi lo stipendio e segna nuovamente un gol decisivo alla Roma. La storia si ripete, nuova esultanza verso la curva Sud e nuovo trionfo dei biancocelesti. A fine partita Di Canio, in completa estasi, va a salutare i tifosi della curva Nord, alcuni dei quali suoi amici. E’ qui che si lascia andare al saluto romano. L’immagine fa il giro del mondo, Di Canio finisce nell’occhio del ciclone. In sua “difesa” interviene anche il compianto Sandro Curzi, giornalista laziale e di sinistra, che liquida la questione come una ragazzata fatta a caldo, subito dopo il fischio finale di un derby tiratissimo. Ma quel gesto lo marchierà a fuoco.

Nel 2013 Il Sunderland sceglie il Di Canio allenatore, ma quando sta per firmare, un politico Labour si dimette dal board della squadra di calcio. “Non sono un razzista e non sostengo l’ideologia fascista. Io rispetto tutti. Non sono un politico e non sono affiliato a nessuna organizzazione. Sono un uomo onesto: i miei valori e i miei principi provengono dall’educazione che mi hanno dato i miei genitori. Sento di non dover giustificare continuamente me stesso, ma ci tengo a chiarire che non sono l’uomo che ad alcune persone spesso piace ritrarre”, dirà Di Canio poco dopo. Ma la sua avventura al Sunderland terminerà anzitempo per gli scarsi risultati ottenuti in campo dalla squadra. E’ l’ennesima conferma: con tutto ciò che gravita intorno ad una panchina Di Canio non ha mai avuto un buon rapporto.

(di Antonio D’Avanzo)

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