Cos’è il nazionalismo? Una nazione? Un nazionalista?

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Nel 1882, Ernest Renan fece questa domanda all’interno del suo discorso, reso famoso presso il pubblico americano da Benedict Anderson: che cos’è una nazione? Nella sua lettura, Renan sostenne che la nazione fosse “un’anima”, o uno “principio spirituale” nel quale i fattori che lo costituiscono sono ciò che noi scegliamo di ricordare e ciò che noi scegliamo di dimenticare. Spiegò anche che razza, lingua, religione, comunità di interessi e geografia fossero i modi in cui gli europei del suo tempo caratterizzavano la nazione, e che questi fossero i fattori che unissero un paese; spiegò inoltre perché ognuno di questi fattori fosse limitato nella sua capacità di unire e tenere insieme i popoli di una nazione.

Il nazionalismo è intrinsecamente razzista? No. Una nazione, secondo Benedict Anderson, è una “unità spirituale”. É un fattore di immaginazione culturale che concepisce il sé del singolo come parte di un gruppo più grande di persone che egli non incontrerà mai personalmente e singolarmente. Per Anderson, quest’unità viene fatta nascere dalla diffusione su larga scala di carta stampata e dalla crescente diffusione di materiale di lettura (inizialmente, giornali). Ciò serve a mascherare conflitti e differenze interne, anche nelle sue forme più basilari, in quanto la sua necessità nasce dal fatto di immaginare noi stessi come aventi qualcosa in comune di significativo con gli altri.

Anche se il nazionalismo non è di per sé razzista, è stato spesso associato con l’etnonazionalismo estremo, come nei casi della Germania nazista e dell’Italia di Mussolini. In questi casi, è stato associato a politiche fasciste nelle quali l’opposizione, definita da categorie razziali o altro, è stata soppressa attraverso lo sradicamento, l’eliminazione fisica o altre forme di oppressione violenta.

Il nazionalismo, dunque, contiene in sé la possibilità di sfociare in politiche razziste, etnocentriche o culturocentriche (spesso centro contro periferia, o città contro campagne). Infatti, fin dalle sue origini, il nazionalismo ha spesso associato la “nazione” con un gruppo etnico. La “nazione” può essere associata al linguaggio e la cultura della capitale, e può essere associato allo sradicamento forzato delle lingue locali e altre forme culturali evidenti che distinguerebbero troppo le persone di un luogo dalla “cultura alta” del centro”. Come evidenzia Ernest Gellner, le “riforme” educatrici sono spesso, storicamente, associate a questi sforzi per imporre pratiche linguistiche e culturali su popoli diversi all’interno di una realtà esistente. Nel contesto europeo, queste realtà erano spesso imperi, monarchie e principati che sussistevano prima della nascita dello stato-nazione.

Il nazionalismo, nella sua forma tardo moderna, è un’idea che emerge, dunque, dall’Europa, ed è caratteristica dello stato-nazione. Quest’ultimo non diventa predominante, globalmente parlando, fino alla prima guerra mondiale.

Il nazionalismo, tuttavia, non nasce con la modernità. Secondo alcuni studiosi, incluso Anthony Smith, il tipo di solidarietà che si trova nel moderno nazionalismo si può trovare anche nelle identità primordiali che precedono di molto l’era contemporanea. L’uso biblico della parola עַם (“Popolo” o “Nazione”) è un esempio. Allo stesso modo, c’è un disaccordo scientifico sul fatto che la Rivoluzione americana debba essere classificata come una rivoluzione “nazionale”, in quanto riguardava una nozione puramente civica di identità e solidarietà comune piuttosto che una formata su etnia, lingua, religione o altri fattori solitamente associati a il concetto di nazionalismo. Importanti studiosi come Liah Greenfeld, tuttavia, associano la rivoluzione americana al nazionalismo.

Il nazionalismo, nell’epoca tardo-moderna, è associato al concetto di “differenziazione”, nel senso che gli stati nazione, per definizione, si distinguono tra loro per regole, leggi, diritti, obblighi, cittadinanza, confini. É difficile sostenere l’idea che il nazionalismo sia intrinsecamente associato (o causale) al razzismo. Detto ciò, i criteri di inclusione sono una questione molto discussa all’interno degli stati-nazione, e si rifanno ai concetti di razza, etnia, genere, religione, lingua, etcetera. Nella maggior parte dei casi, questi dilemmi non sono causati dal nazionalismo in sé. Oltretutto, dal momento che lo stato-nazione è stato spesso associato ai sistemi politici democratici, è associato a sua volta anche con quelle istituzioni politiche che permettono il libero svolgimento di un dibattito che crei inclusione per le diverse persone che compongono uno stato-nazione.

Io difendo l’idea di nazione come qualcuno che, idealmente, preferirebbe un mondo basato sulla Via della Seta dove più cammelli, cavalli e muli, e meno recinti esistono tra i popoli, meglio è. Una simile utopia non sembra che possa giungere tanto presto. E le istituzioni oggi esistenti sono chiaramente all’altezza del compito di garantire l’inclusione, a livello nazionale, e allo stesso tempo usare lo stato nazionale per difendere i diritti di un segmento della popolazione mondiale alla volta, a livello internazionale.

Il problema non sono le istituzioni o la teoria formale, ma piuttosto il garantire che le pratiche sul campo corrispondano a entrambe. L’alternativa imperiale mi sembra molto meno attraente. Ci sono significativi costi di transazione, nelle vite e nelle libertà, associati alla sperimentazione di ordini politici non sperimentati (o precedentemente falliti). In linea di principio, lo stato-nazione è un mezzo istituzionale proprio per democratizzare il sistema internazionale. Permette alle popolazioni, per regione e sottoregione, di essere rappresentate da popoli più vicini a loro materialmente, culturalmente, in termini di modelli istituzionali, e in altro modo. Un nazionalista, quindi, è qualcuno che crede che gli interessi di segmenti del mondo siano rappresentati meglio in pezzi più piccoli di continenti o imperi in un mondo certamente imperfetto.

(Da E-r.info – Traduzione di Federico Bezzi)

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