La lezione di Duchamp a 50 anni dalla sua scomparsa

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Siamo a New York, è il 1917 ed è stata da poco fondata la “società degli artisti indipendenti” che permette, versando appena sei dollari, di presentare alla commissione incaricata almeno due opere. All’interno della commissione vi è un uomo che compirà un gesto semplice quanto originale passando alla storia e stravolgendo completamente i canoni estetici e il concetto stesso di fare, o in tal caso di non fare, l’arte.

Questo personaggio era Marcel Duchamp e la sua opera, un orinatoio inviato in forma anonima e scartato dalla stessa commissione di cui faceva parte, darà vita al nuovo stile, il ready-made, l’oggetto già fatto che diventa Arte per il solo fatto di essere stato scelto dall’artista e in quanto si ritrova collocato in un contesto artistico.

Non ha importanza l’oggetto, anzi, più sarà insignificante e indifferente più avrà maggiore probabilità di essere scelto, che si tratti di un orinatoio, una ruota di bicicletta, un gomitolo di spago, una pala da neve ecc. Da 100 anni a questa parte sono seguiti pochissimi veri apostoli, molti emulatori e tantissimi imbroglioni che hanno cercato di elaborare (quasi sempre in modo errato) a modo loro il messaggio dissacratorio lasciato dal genio francese.

Qual era dunque il vero messaggio che volle lasciare Duchamp se analizziamo il suo percorso personale ed il contesto storico? Il suo obiettivo era quello di liberarsi dall’arte tradizionale che ai suoi tempi con le prime avanguardie storiche, a seguito degli sconvolgimenti e i colpi inferti dalla fotografia e dal cinema alla pittura, rifletteva su come lasciarsi alle spalle il passato.

Dirà infatti l’artista francese: “A partire da Courbet si crede che la pittura sia diretta dalla retina, il brivido retinico… un tempo invece la pittura aveva ben altre funzioni, poteva essere religiosa filosofica morale era un ponte che consentiva l’accesso ad altre realtà. Il Beato Angelico non si considerava un artista non faceva arte si riteneva un artigiano al servizio di Dio. Solo più avanti e scoperta l’arte nelle sue opere” .

L’opera di Marcel Duchamp, sebbene possa essere inserita in parte all’interno della corrente dadaista, in quanto caso unico si mantiene distaccata da qualsiasi genere e segnò un punto di non ritorno. Venne però inteso come un punto di partenza dell’arte contemporanea. Da quel momento l’arte non fece altro che rincorrere se stessa, un continuo riciclarsi per soddisfare il mercato in un circuito autoreferenziale fatto di quella catena di Sant’Antonio che lega case d’asta, gallerie, quotazioni gonfiate collezionisti e critici.

Un meccanismo che fu definito da un altro pensatore francese, Jean Baudrillard, come complotto dell’arte. L’arte secondo Duchamp era come un bel miraggio, come l’oasi che appare nel deserto finché non si muore di sete. E purtroppo nel campo dell’arte non si muore mai di sete:
Credo” – scrisse il francese – “che la parola e il concetto di arte siano un miraggio tautologico. L’arte è una droga che produce tossicodipendenza, l’orgasmo estetico di una società satolla ed egocentrica. Non si può parlare nemmeno di anti arte, bisogna dichiarare il fallimento della parola arte e del concetto di arte e sostituirli per comodità con il negativo Anarte. Al contrario di individuo artista esiste ed esisterà sempre,ma in quantità molto ristrette che ammassiamo in scuole, periodi della storia dell’arte che è anche essa un inanità

(di Emilio Bangalterra)

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