Disoccupazione e disagi: l’UE comincia a impoverire anche la Germania

Il rischio della povertà: una triste realtà per una grossa fetta di cittadini europei. Ma quale è la nazione dove maggiormente tale pericolo stritola le vite dei disoccupati? Incredibile a dirsi ma è proprio la Germania: l’analisi dei dati del 2016, raccolti dall’Eurostat e pubblicati dalla radio pubblica tedesca Deutsche Welle, è preclara.

Il rischio di povertà, per coloro che sono sostenuti dai sussidi di disoccupazione, è il più alto di tutta l’Unione Europea: il punteggio teutonico di 70,8% (a livello europeo è 48,7%) è superiore a quello lituano (60,5%) e lettone (55,8%). Questa percentuale sulla povertà viene stabilita quando il salario è inferiore del 60% rispetto a quello medio nazionale: in Germania, da disoccupati, si riceve il 60% del salario (67% se si ha della prole a carico) per 12 mesi; successivamente si riceve l’ “Hartz-IV”, ossia 417 Euro al mese.

La radio tedesca ha pubblicato un’intervista a Ulrich Schneider, che è a capo di un’insieme d’organizzazioni di carità (Deutscher Paritätischer, ossia Parità tedesca): “Tutto questo è il frutto delle politiche tedesche di sicurezza sociale. Nel 2005 furono aboliti i benefit per disoccupati che, andando oltre ciò che è previsto dall’”Hartz-IV”, concedevano qualcosa in più; il risultato è stato una differenza maggiore fra occupati e non, rispetto anche ad altre nazioni”.

Si è trattato di una pala socio-economica, con la quale costringere i senza lavoro a accettare lavori più umili e con paghe inferiori o precari; Schneider infatti dice: “Furono decisioni politiche conscie perchè si presumeva che ciò avrebbe costretto sempre più persone ad accettare lavori con salari più bassi”. La società così si frantuma e un muro invisibile viene eretto fra chi ha tanto e chi non ha nulla o generalmente poco, come se si fosse stranieri nella propria patria.

Christoph Schroeder, ricercatore per l’Istituto di ricerca economica di Colonia, sebbene ricordi che i disoccupati sono diminuiti aggiunge un ulteriore fattore da considerare sulle ingiustizie sociali: “… C’è stato un aumento anche per gli alti livelli di immigrazione, ma se questo dato viene eliminato si ha un incremento lieve dell’ineguaglianza”.

Vecchia e triste storia: come se non bastassero le misure violente, per spingere i disoccupati a chiedere di “meno” per lavori minori assieme ai tassi nazionali di disoccupazione, si aggiungono al vaso tedesco che ora straborda di nequizie anche gli immigrati che, naturalmente, fanno salire tali dati statistici e nella realtà portano a un impoverimento sociale. Il vantaggio? Per chi assume, naturalmente: se l’esercito industriale di riserva viene persino rimpinguato dall’immigrazione, è una festa per i grandi imprenditori.

L’Istituto per l’economia e la ricerca sociale (WSI) con sede a Dusseldorf asserisce che nonostante il boom nelle esportazioni tedesche, la povertà colpisce un tedesco su sei su una popolazione di 82 milioni di residenti; anche in questo caso si parla appunto di “residenti” perchè nei calcoli vanno considerati anche gli immigrati i quali, in tali statistiche, sono purtroppo ai primi posti. Il barometro della povertà, creato nel 1996, ha registrato su un sondaggio effettuato l’anno scorso quota 15,7-8%.

Chi rischia maggiormente fra gli immigrati è chi non riesce ad apprendere la lingua ma tale pauroso pericolo riguarda anche categorie di nazionali: sempre il WSI elenca i genitori single, chi percepisce sussidi dallo stato sociale e anche chi non ha particolari titoli di studio. Si citano persino i più piccoli fra coloro che possono soffrire la nuova forma di miseria della nostra epoca: lo riporta lo studio della Fondazione Bertelsmann. Se in una famiglia lavora solo il padre, c’è il rischio di essere poveri; estreme difficoltà per le madri che crescono da sole il proprio figlio, essendo praticamente impossibile per loro lavorare almeno 30 ore alla settimana e spesso le madri sole hanno lavori – part time – pagati “ovviamente” meno.

Si sviluppa persino un valico sociale fra i bambini sopra o al di sotto della soglia di povertà: questi ultimi hanno addirittura meno amici, non frequentando strutture sportive, non possono andare spesso al cinema, svolgono meno attività ricreative. Parola di un leader “populista”? No, è la project manager della Bertelsmann, Sarah Menne. La stessa società che l’anno scorso sentenziò, dopo aver realizzato uno studio su 3mila bambini nel corso di più anni, che il 21% dei bambini in Germania sono in condizioni di povertà ricorrente o permanente.

Ancora un dato, fornito dalla Banca centrale europea: metà dei proprietari di casa tedeschi, come attivo patrimoniale dopo aver dedotto i debiti contratti, ha da zero a un massimo di 60mila Euro; in Italia siamo sui 150,000 Euro. Forse è là che gli avvoltoi della finanza vorranno aggredirci.

Il britannico The Economist ha parlato delle ingiustizie sociali tedesche ed è senza dubbio da stigmatizzare questo procedimento: si percepisce un “ammortizzatore sociale”, si trova un lavoro con un salario più basso, si è costretti a spostarsi a causa dell’affitto ora esoso e così si finisce per vivere in una sorta di ghetti contemporanei, denominati appunto “quartieri Hatrz-IV”, con alte percentuali di immigrati, moltissimi problemi sociali e desolazione. Osservando le cose nella loro realtà, è molto più facile comprendere come mai “populisti”, rossi e neri, colorano le piazze delle povere città della vecchia Germania orientale.

Non si tratta dunque di uno strano “sortilegio” mediatico-politico operato da “approfittatori” e “demagoghi” ma semplicemente di esacerbazione sociale e di ingiustizie non più tollerabili: i tedeschi orientali lavorano più ore per una paga assai più magra dei loro connazionali occidentali, i salari hanno una differenza generale pari a 5mila Euro e inoltre vivono in una zona che è stata annichilita dopo l’unificazione, un vero e proprio deserto post-industriale.

Vicino al confine con la Repubblica ceca, alle pendici dei Monti lusaziani, la fabbrica locale Margarethenhütte che funzionava durante la Repubblica democratica tedesca e occupava 850 lavoratori fu chiusa. É esistita per 130 anni, ma non ha resistito alla “bellezza” dell’unificazione tedesca che i cittadini dell’Est hanno pagato caro (fonte è lo statunitense The Christian Science Monitor). Di casi simili ce ne sono a centinaia, immaginate a livello nazionale cosa significhi: disoccupazione, quartieri in rovina, povertà, riduzione della natalità, zone industriali dismesse, immigrazione da nazioni estremamente lontane e diverse.

La Germania, se davvero è una locomotiva, sta adoperando i suoi connazionali e una buona porzione di immigrati come carbone economico.

(di Pietro Vinci)