Il vero volto dell'Unione Europea

Il vero volto dell’Unione Europea

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Che cos’è l’Unione Europea e cosa rappresenta? Come inquadrarla antropologicamente e storicamente? Domande all’apparenza banali, quasi superflue, che invece non lo sono affatto per noi che questi tempi li stiamo vivendo e ne siamo il frutto.

Partiamo dunque da quello che non è: Unione Europea non significa Europa. Mentre la prima è nata nella forma odierna nel ’92, il continente europeo è lì da milioni di anni e sarà ancora al suo posto quando l’Unione diverrà soltanto un paragrafo nel libro della storia. L’Unione, che si presenta come un’organizzazione sovranazionale pensata e creata da uomini, non va quindi confusa con il continente da cui ha preso il nome. Quello appena esposto sembra essere un concetto abbastanza semplice, comprensibile per chiunque, tuttavia spesso così non è – e difatti tutti noi conosciamo qualcuno che si ostina a non afferrarlo.

Tornando a noi, possiamo affermare che UE non è Europa più di quanto non lo è stata la stessa unificata sotto l’impero romano o, in tempi più recenti, sotto quello napoleonico. Ed ecco che, indirettamente, giungiamo ad una prima risposta alle nostre domande: l’Unione Europea è un impero, un impero la cui forma è – quasi – inedita rispetto ad ogni altro venuto prima. Quello che avete appena letto potrebbe sembrare, di primo acchito, una follia: lasciate quindi che vi spieghi che non lo è affatto.

Nel suo “Sapiens – da animali a dei” il prof. Harari (storico e docente di storia all’Università di Gerusalemme) analizza ed indaga la storia dell’umanità, individuando e riconoscendo i fattori che più ne hanno influenzato l’esistenza; egli distingue, come fattori fondamentali, quattro rivoluzioni (congnitiva, agricola, scientifica e industriale) e tre invenzioni partorite dalla mente umana: denaro, imperi e religione. Agendo come veri e propri catalizzatori, questi fattori hanno permesso all’umanità di prendere l’autostrada della storia e di arrivare dove è oggi. Per comprendere meglio l’importanza di questi catalizzatori e come hanno condizionato la nostra storia devo lasciarvi alla lettura di Sapiens (non ve ne pentirete, credetemi) e soffermarmi invece sugli imperi.

Gli imperi – tutti – sono ordini politici con le peculiari caratteristiche di governare un numero significativo di popoli distinti (ciascuno con identità e territori separati) e di avere confini flessibili e un appetito potenzialmente illimitato.

La differenza tra impero e stato nazionale è presto spiegata con un esempio: Luigi XIV era re dei francesi che vivevano in Francia, Napoleone era imperatore dei francesi ma anche di tutti i popoli e le terre che aveva conquistato. Al Sisi è presidente d’Egitto e degli egiziani, Alessandro Magno era imperatore di tutti i popoli e le terre allora conosciuti. Impero è forza unificante, inclusiva, che nasce dalla sete di conquiste ma soprattutto dal desiderio di governare tutte le genti, pretestuosamente nel loro interesse. “Vi stiamo conquistando per il vostro bene”, dicevano i persiani di Ciro; sul sito dell’UE invece si legge che il motto dell’Unione – “Unita nella diversità” – sta ad indicare come, attraverso l’Unione stessa, i popoli europei siano riusciti ad operare insieme a favore della pace e della prosperità. Notate qualche somiglianza, un vago richiamo al motto di Ciro?

Continuando a esplorare il sito potrete leggere, alla voce “Allargamento – diffondere la prosperità e la democrazia”, che “l’allargamento dell’UE ha promosso la crescita economica e rafforzato la democrazia di paesi che uscivano dalla dittatura”. Come i conquistatori persiani, l’Unione si espande promuovendo il benessere dei popoli – civilizzandoli, educandoli e tassandoli.

Nel capitolo dedicato agli imperi, il professor Harari ne dà una definizione precisa ed esauriente: un impero viene definito solo dalla sua diversità culturale e dai suoi confini flessibili, e non dalle sue origini, dalla forma di governo, dall’estensione territoriale o dalle dimensioni della popolazione. Non necessariamente un impero nasce attraverso la conquista militare.

La diversità culturale insita al “nostro” impero non ha bisogno di spiegazioni. I confini flessibili, invece, sono una caratteristica interessante: dagli stati fondatori ai 28 membri attuali l’Unione si è sempre espansa ed oggi altri sono in lizza per entrarvi, ma con la Brexit i suoi confini si sono ridotti per la prima volta.

Qualcuno potrebbe obiettare che l’UE di fatto non governa alcuno stato e che i membri sono teoricamente indipendenti. Queste argomentazioni suonano vuote dal momento che tutti noi conosciamo bene cosa significa “ce lo chiede l’Europa”; per le politiche economiche, occupazionali e sociali, infatti, l’Unione ha un ruolo di coordinamento e detta le linee guida entro le quali ogni stato ha la libertà di determinare le proprie politiche – tradotto, ogni stato è libero nel rispetto dei dettami imperiali. L’Unione, inoltre, ha competenza esclusiva in fatto di politica doganale e monetaria nonché nella regolamentazione del mercato comune. Chi si illude che l’Unione non eserciti di fatto un governo centrale deve ricredersi e le centinaia di migliaia di greci affamati in nome dell’austerity ne sono esempio cristallino: si sa, anche la prosperità esige il suo prezzo.

Appurata la natura imperiale dell’Unione Europea, spostiamo la nostra attenzione sull’imperatore. Chiederci chi o cosa diriga un così sofisticato, moderno ma soprattutto meravigliosamente camuffato organo imperiale ci introduce a scenari spaventosamente tetri. Banchieri, finanzieri, speculatori, investitori, tecnocrati: è questa schiatta d’uomini devota solo all’economia (e al proprio interesse, naturalmente) che siede ai tavoli di Bruxelles e amministra le politiche economiche dell’Unione – con enormi profitti.

Uomini come Monti e Macron, legati alle banche (Goldman Sachs e Rothschild – le prime di una lunga lista), stanno divorando il Vecchio Continente. In realtà, non siamo di fronte al primo impero di questo genere: il primo impero dei mercati che la storia ricordi è stato l’impero olandese, creato e conquistato non da un governo, ma da una compagnia privata, la VOC – compagnia olandese delle Indie orientali. Similmente, l’UE non è nata subito come forma di governo, ma come comunità economica – la CEE – il cui obiettivo era l’unione economica – e non politica – dei paesi membri.

Sotto la guida oculata dell’élite finanziaria, il gergo economico è entrato forzatamente nella vita quotidiana di tutti noi: bilancio, Bund e bond, capitalizzazione, deficit, dumping, potere d’acquisto – sono solo alcuni dei termini cui i media ci hanno abituato facendoli risuonare nelle nostre orecchie giorno e notte. Non tutti questi termini sono uguali – alcuni sono molto più spaventosi di altri; mi riferisco a due termini molto ricorrenti: crescita e PIL.

Il PIL (prodotto interno lordo – misura il valore di mercato aggregato di tutte le merci finite e di tutti i servizi prodotti nei confini di una nazione in un dato periodo di tempo) ed altri indicatori economici – produzione industriale, bilancia commerciale ecc. – vengono usati per descrivere, nel modo più riassuntivo e impersonale possibile, la condizione di un paese e il suo stato di “salute”. Questo assunto – che si possa utilizzare esclusivamente il linguaggio economico per descrivere una tra le forme più complesse di società umana, lo stato nazionale – è però truffaldino, perché presuppone che uno stato sia, in fin dei conti, una qualsiasi azienda e che come tale possa fallire – riducendo la vita di un popolo a dei puri meccanismi aziendali.

L’ossessione per la crescita economica è se possibile ancor più spaventosa. Essa è talmente cara ai ministri imperiali che su Wikipedia alla voce “Unione Europea” potete leggere che la stessa mira alla stabilità politica, alla crescita economica e – infine – alla coesione sociale e territoriale tra gli stati membri. Considerando che la stabilità politica e in certa misura anche la coesione sociale sono presupposti necessari ad una buona crescita economica, si potrebbe dire che l’obiettivo dell’Unione è proprio la crescita economica. Inevitabilmente, ogni qual volta sento un affarista – le cui tasche magari sono già ricolme d’oro – prodigarsi a gran voce ed invocare la crescita, torna in mente la frase di un celebre naturalista inglese, David Attenborough: “Chiunque creda nella crescita illimitata su un pianeta fisicamente limitato o è un pazzo o è un economista.”

Infine, non possiamo non parlare del lato più oscuro dei moderni economisti: la loro ineluttabile esclusività e il loro sfrontato fondamentalismo. Se infatti l’impero è una forza inclusiva, l’economia è esclusiva: scienza accessibile solo a chi ne è stato iniziato, i quali a loro volta sono gli unici tecnici legittimati a governare perché depositari della verità economica. Si ha la sensazione che l’economia, con i suoi dogmi, le sue leggi, i suoi mantra si sia innalzata a nuova religione imperiale; sensazione che trova conferma nel libro del professor Harari, secondo cui le nuove religioni sono proprio le dottrine umaniste, ivi comprese quelle economiche. La religiosità di cui si ammanta oggi l’economia ne è quasi certamente l’aspetto più preoccupante, tanto da spingere una celebre antropologa, Ida Magli a scrivere: “Il fondamentalismo dei banchieri che governano attualmente l’Europa fa veramente paura.”

Come darle torto? Che futuro attende i dominati in una società in cui i motori dell’umanità – religione, denaro e imperi – si sono uniti sotto un unico vessillo? Cosa aspettarci dal domani in un mondo che ha fatto dell’avidità il suo valore fondante?

(di Giacomo Canal)

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