Humanitas e téchne: la mezzaluna del pensiero tra Europa ed Oriente

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Il XXI secolo rappresenta l’apogeo del rifiuto, da parte dell’essere umano, di rimanere ancorato all’essenza più caratterizzante ed intrinseca che gli appartiene, cioè quella dell’umanesimo rinascimentale e, in seconda battuta, dell’umanismo, intravisto con la prospettiva heideggeriana del reale e del contingente.

La tecnicizzazione della società si deve ad un repentino e radicale mutamento della sua stessa weltanschauung: si è passati da una visione antropocentrica ed antropologica, ad una meramente tecnocentrica – in cui tanto il pensiero autonomo dell’individuo, quanto la comunità sociale dove esso è inserito, sono stati surclassati da una tensione disumanizzante, ben esemplificata dalle eccessive attenzione rivolte ad una fredda oggettività piuttosto che agli stimoli e bisogni soggettivi e comunitari.

Cosa si vuole affermare in sostanza? La perdita di un orizzonte di senso ad un tempo individuale e collettivo, verso uno banalmente egocentrico ed individualista. È stato perduto quell’aspetto squisitamente politico che invece era peculiare e vivo nell’antica Grecia. Infatti, la nascita della cultura occidentale deve essere riferita a quel pregnante contesto storico: Platone e Aristotele, ma pure Sofocle ed Euripide, sono da considerarsi tra i fondatori dell’ars politica e di tutto ciò che ne deriva.

Vale a dire, quel ragionamento attorno al quale si sono create le diverse dottrine e concezioni sul significato di comunità e popolo: per farla breve, la collaborazione per giungere al bene pubblico, il quale per forza di cose si riflette direttamente nel privato (e viceversa). Ma il bene dev’essere inteso come felicità, benessere, soddisfazione dei bisogni e partecipazione ai doveri in vista, per l’appunto, del bene stesso: il quale, beninteso, è contemporaneamente collettivo e individuale.

E questo principio lo ritroviamo in maniera chiara nella Repubblica platonica: nell’opus maior del filosofo ateniese, i ruoli sociali degli uomini corrispondono alla qualità della loro anima, tripartita in razionale, irascibile e concupiscibile; il discorso finora fatto qui si ritrova pienamente: coloro i quali reggono le redini della città sono depositari di un sapere di tipo filosofico, che si instaura al di sopra di ogni tecnica e tecnicismo. Trasponendolo a livello individuale, l’agire si configura come morale qualora abbia un fondamento umano ed umanistico alle spalle. Per dirla con Seneca, la morale agisce laddove la legge non interviene: del resto, già Sofocle con l’Antigone sottolinea brillantemente questa discrasia, in cui però il diritto positivo (leviatanico) opprime la possibilità di esercitare la giustizia morale.

Nel dibattito contemporaneo – ed italiano nello specifico – una squisita argomentazione di questo stampo è espressa dall’economista e professore universitario Valerio Malvezzi, il quale illustra come in passato la filosofia morale abbia sempre preceduto, per importanza, la politica, l’economia e la finanza, in una piramide dell’umano agire che la vedeva imprescindibilmente al culmine; invece, al giorno d’oggi, i rapporti di forza si sono completamente ribaltati, ed i risultati sono evidenti. Il profitto è divenuto l’ineliminabile ed oppressivo obiettivo cui ambire, anche a costo di non rispettare il precetto senecano di cui sopra e calpestare quindi ogni etica. Occorre, in tal senso, riscoprire Kant, nella sua disquisizione per la quale l’umanità non è strumento, ma fine ultimo cui tendere con dedizione; occorre riscoprire l’umanismo che Heidegger, a metà del XX secolo, tanto sentitamente espose.

Oltre a questi, che era immerso a pieno regime nella cultura occidentale e che ha assistito al suo sviluppo e al suo declino, descrivendoli da una prospettiva puramente europea, per giustificare la nostra posizione possiamo prendere in considerazione la descrizione che il filosofo algerino Malek Bennabi fece dell’Occidente e dell’Europa. È un punto di vista particolare, perché nasce dalla riflessione su una possibile via per la de-colonizzazione concentrandosi sull’analisi del colonizzatore, l’uomo europeo; non lo indica come un nemico, ma ne studia le caratteristiche e come queste abbiano permesso l’occupazione delle patrie africane. E da qui, costruire una possibile via per la viva ripresa diretta delle nazioni da parte dei loro stessi figli.

A fianco dell’immobilità e della stagnazione culturale e politica del mondo musulmano, gli Stati del nostro continente sono riusciti a penetrare in Africa grazie alla sintesi del cristianesimo e del cartesianesimo: la dottrina delineata da Cartesio è ritenuta da Bennabi il nucleo primigenio di ciò che poi porterà alla nascita del fordismo e del taylorismo, cioè del razionalismo e dell’automatismo esasperato, che si concretizza attraverso la religione del Cristo, poiché è proprio quest’ultima a conferire a questa teoria la tensione dinamica necessaria per la realizzazione nella prassi della teoria.

Nel ‘900, però, questa visione del mondo si radicalizza, assumendo sempre più i tratti di quella realtà pervasa dalla téchne di cui Heidegger parla in diversi momenti dei suoi scritti; ma Malek Bennabi è un pensatore che vede l’Europa e l’Occidente dal di fuori, non ne è un protagonista diretto – egli ne subisce solo le conseguenze. Non è in fin dei conti un osservatore di parte. E già dagli anni Quaranta e Cinquanta, lui prende atto che la cifra, le calorie, il numero possiedono ora la realtà; e che essa si modella sulla statistica, vale a dire che è l’epoca del quantitatismo delle coscienze, o del relativismo morale. Un’etica comune è assente. È tutto relativizzato, individualistico e senza più lo sguardo improntato all’essere umano, ma solo verso se stessi: non è l’egoismo di Nietzsche, ma è l’aberrazione dell’istinto di sopravvivenza e di considerazione che annichilisce la prospettiva che in realtà l’uomo dovrebbe avere: ad un tempo verso di sé e verso la comunità in cui si ritrova a vivere; senza contemporaneamente rapportarsi con il mondo solo attraverso gli strumenti dati dalla tecnica.

La progressiva e cavalcante reificazione dell’essere umano in mero consumatore di beni e di merci, individuo senza patria, incapace di comprendere la libertà del sacrificio per la collettività e riverso su una libera scelta sclerotizzata, ha toccato nel XXI secolo un culmine prima inimmaginabile: ha sradicato il senso peculiare della società come polis comunitaria nella quale condividere diritti e doveri, trasformandola in un agglomerato di monadi atomistiche ed esclusiviste.

Trattasi di una situazione irrimediabile? Noi diciamo di no: essa è ribaltabile, innanzitutto con la consapevolezza. Un insegnamento prezioso ci giunge dal Paese del Sol Levante. Nell’epoca della restaurazione Meiji – quando l’imperatore riacquisì finalmente i poteri che gli spettavano, dopo che questi per secoli erano stati ufficiosamente ceduti ai vari shogunati (come quello dei Tokugawa) e da essi detenuti – nel 1882 veniva fondato, a Tokyo, il Kodokan, la palestra di Jigoro Kano, colui che partì dall’arte del ju-jitsu ed elaborò il judo, la cui traduzione in italiano suona meravigliosamente: “la via della cedevolezza”. Non quindi un’esibizione, né semplicemente un’attività sportiva, ma un itinerario da percorrere, con un obiettivo da raggiungere ed una filosofia di vita da rispettare.

I suoi due principi basilari e fondanti sono dei precetti esistenziali di squisita fattura: Seirioku Zenyo e Jita Kyoei. Alla lettera: “Il miglior impiego dell’energia” e “Tutti insieme per il benessere”. Ovverosia: è necessario un miglioramento costante di sé stessi, contestuale all’ambiente in cui ci si trova, poiché soltanto attraverso una continua sfida a sé, quest’ultimo potrà brillare di luce propria nella società; in questa stessa società, tuttavia, la varia e differente intensità delle luci che la compongono non debbono creare delle vicendevoli zone di ombra, ma risplendere con forza e tenacia condivise, poiché dalla forza del gruppo ne esce corroborato anche il singolo.

Tali spunti potrebbero essere colti nella loro essenza, attualizzati nell’Occidente al tramonto (ben illustrato da Spengler) affinché un nuovo sole si levi: quello dell’avvenire. Il cambiamento dovrebbe partire da una presa di coscienza progressivamente sempre più ampia, per poi concretarsi nelle misure politiche ed economiche che ne riflettano i valori: non i costi, non i prezzi, bensì i valori, umani e morali, contingenti e palpabili. Individuo e società vanno di pari passo, poiché i fattori di sanità, vigore ed energia dell’uno e dell’altra sono in reciproca interdipendenza, come lo sono quelli di difficoltà e debolezza: questa è, fondamentalmente e mutatis mutandis, l’ars politica che l’Antica Grecia, per il mondo occidentale, coniò ed esercitò, tramandando uno dei messaggi più vivi che hanno avuto lunga e sfumata storia in Europa.

Ciò detto, abbiamo potuto constatare che la problematica del nostro intervento non è individuabile solamente all’interno di due regioni intellettuali quali sono l’Europa ed il Mediterraneo, da sempre crogiolo di visioni del mondo sì contrapposte, ma in perenne e perpetuo dialogo; ma è presente anche in quel Lontano Oriente che spesso e volentieri non è tenuto in conto nell’analisi. In tutto il mondo ed in tutte le epoche (in special modo nel corso dell’accelerazione degli ultimi tre secoli) si è sentita l’esigenza di conferire un ruolo edificante, di governo, all’humanitas, concretamente espressa nelle humanae litterae, anteposte a qualsivoglia mezzo tecnico, indispensabile e giovevole strumento se ben indirizzato ad un fine etico.

Per concludere, infatti, possiamo sostenere che la odierna società occidentale, immersa nel nichilismo passivo che tanto spaventava Nietzsche, abbia perduto le sue colonne d’Ercole spirituali, oltrepassando le quali si sarebbe potuti approdare ad un nuovo Rinascimento; però, sebbene abbiamo perso la bussola nel mare della tecnica, sussiste ancora una possibilità: individuare la stella polare dell’umana moralità, fissa nel cielo notturno, e da lì ritrovare la rotta perduta, che da troppo tempo le mappe non segnano più.

(di Alessandro Soldà Cristofari e Lorenzo Franzoni)

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