La sfrontatezza della mortalità in un mondo che vuol essere immortale

L’uomo è mortale, e nella sua vita giunge a tre tappe fondamentali: la giovinezza, l’età adulta e la vecchiaia. Era la soluzione all’enigma della Sfinge che Edipo risolse per sconfiggere il mostro: “qual è quell’animale che al mattino cammina su quattro zampe, a mezzo dì su due e alla sera con tre?”. Nella letteratura greca si prendeva già atto dell’impossibilità dell’essere umano di poter eludere il proprio destino: seppur controvoglia si invecchiava e poi si moriva.

Se le Parche, le dee del fato, non decidevano diversamente: in quel caso, la morte sopraggiungeva prima ancora dell’arrivo della peluria color neve. Ma gli anziani nonostante la loro età erano rispettati, perché detentori di una saggezza che solo da vecchi si poteva acquisire e dunque trasmettere in parte alle nuove generazioni, che della vita sapevano poco o niente; così fino a non molti anni fa: il nonno e la nonna erano dei punti di riferimento per le famiglie perché conoscevano il mondo e ammonivano i più giovani delle enormi contraddizioni presenti nella realtà che li circondava.

I vecchi erano, in sostanza, detentori di un’autorevolezza e di una stima nei loro confronti oggi impensabile: il concetto di anzianità ci fa rabbrividire, l’idea delle rughe, dei capelli bianchi e dell’ospizio non è esattamente la conclusione dell’esistenza che ciascuno si sogna; non possiamo tollerare la caducità della vita, perché ci impone a considerare l’esistenza di un limite, di una soglia che noi non possiamo superare: per la società contemporanea no borders e gender fluid, una contraddizione, un cortocircuito fastidioso e all’apparenza insopprimibile.

Per i greci, l’universo era finito, regolato ed armonioso in ogni suo aspetto: il limite e l’ordine erano sempre presenti. La razionalità era il fulcro del loro ragionamento e del loro vivere: erano consci della propria limitatezza, in quanto uomini e mortali. L’illimitatezza era sinonimo di disordine, di anarchia.

Oggi assistiamo all’esatto opposto: anestetizziamo il dolore e scappiamo dalla morte, così come dalla terza età; rinneghiamo la nostra natura umana, che ha un inizio e una conclusione; vogliamo oltrepassare tutti i limiti naturali che ci troviamo di fronte. L’eterna giovinezza è il nostro sogno erotico, vorremmo tutti vivere nell’Isola che non c’è: tanti bei Bimbi Sperduti che lottano contro Capitan Uncino. Non vogliamo assumerci responsabilità, non vogliamo crescere e maturare.

Così a cinquant’anni desideriamo essere ventenni; e a ventun anni, come se ne avessimo diciotto: la pietra filosofale l’abbiamo trovata, per ora, nei social network. Se vogliamo possiamo essere eternamente giovani, cool e trendy; una foto, due filtri e un hashtag ed ecco l’apericena della gente che non invecchia. Perché accettare d’invecchiare in un contesto quale è il nostro, senza limiti né regole, non è che indice di una perversa o malcelata voglia di vivere, di assaporare l’esistenza: e si centellina ogni scelta con la consapevolezza che non durerà per sempre, pure se per molto tempo. Si conferisce di nuovo valore alla vita. Considerarsi superuomini immortali, anche se non lo si è, porta all’effetto opposto: nulla, cioè, vale.

Perché c’è tempo, vivremo per sempre – se non concretamente, su internet – e dunque a che serve assaporare fino in fondo ogni evento, ogni serata, ogni bacio, ogni sorriso, ogni festa? Internet è lo strumento attraverso cui la società contemporanea ha stravolto la concezione che Epicuro aveva della filosofia: secondo il filosofo ateniese, l’attività filosofica serve “affinché [il vecchio] nella vecchiezza si mantenga giovine in felicità, per riconoscente memoria dei beni goduti, [e il giovane] affinché sia ad un tempo giovane e maturo di senno, perché intrepido dell’avvenire”.

Se dunque una volta era la filosofia ad essere lo strumento intergenerazionale per eccellenza con cui ognuno poteva superare la limitatezza della propria età e dunque poter “vivere per sempre giovane”, ma con maturità, oggi internet ha ribaltato completamente la situazione: tutti possono tornare ad essere adolescenti, ma non più con senno e giudizio; l’idiozia, la vacuità e la superficialità prendono il sopravvento: perché non si riconoscono più limiti, quelli naturali compresi. Si è consci che un giorno, molto lontano anzi quasi irraggiungibile, si dovrà morire; nella mentalità del qui ed ora, però, la prospettiva della morte non è ritenuta valida, neppure considerabile. E visto che il tempo a nostra disposizione è in apparenza illimitato, le azioni e gli eventi a cui partecipiamo come dicevamo poco sopra perdono di valore, in quanto facilmente ripetibili, senza lo spauracchio della fine.

Si arriva alla conclusione per cui l’età è presente solo sulla Carta d’Identità; non nella realtà: madri che si vestono e si atteggiano come le proprie figlie o padri che gareggiano con i propri figli a fare i Don Giovanni sono solo alcuni degli esempi che si possono tranquillamente osservare uscendo fuori di casa; perché i genitori si considerano alla stregua della propria prole, si pongono sullo stesso livello, escono dal ruolo imposto dall’età, con la banale conseguenza della distruzione di qualsiasi vincolo e di legame famigliare: non si vede più il padre o la madre come tali, né vi è coscienza da parte loro di esserlo. Neppure si vede il figlio come qualcuno che abbia bisogno di una formazione o educazione, piuttosto come un amico con cui svagarsi e divertirsi o contro cui lottare per conquistare l’ambito partner sessuale.

Ma al di là del becero moralismo (che qui non si vuole fare), e ci avviamo alla conclusione, è davvero desolante osservare come in un contesto più generale nessuno abbia più voglia di assumere un ruolo e dunque le responsabilità ad esso collegate, che siano l’insegnare come l’imparare o semplicemente il comprendere e l’accettare ciò che si è. Vivere all’interno di un limite, e ritorniamo al discorso iniziale, non implica un’assenza di libertà d’azione e di pensiero, perché s’impara a ponderare le proprie scelte, senza perdere la capacità del libero arbitrio; forse, anzi, si assume una veste più saggia ed armonica, e si vive meglio con se stessi e con il resto del mondo. Si basta e si accetta l’esistenza dentro ad un reticolo ben delineato.

L’assenza di limite, di ordine, l’anarchia d’altra parte impedisce di realizzare decisioni giuste e consapevoli: non ci sono schemi o protocolli da seguire, recinti in cui rimanere. Tutto come niente può essere realizzato. Con il raziocinio e con la consapevolezza di essere finiti e limitati è possibile tendere invece a creare qualcosa che, paradossalmente, può vivere in eterno: la memoria, il ricordo.

La vaghezza dell’eterna giovinezza, dell’immortalità, no: quella è una prerogativa di Dio, o degli dèi olimpici, che non hanno bisogno di essere ricordati perché eternamente vivi (e forse per questo che oggi in molti “si dimenticano” della religione, di una possibile esistenza di una divinità oltre la nostra realtà?). E questa responsabilità, che appunto è divina, è troppo pesante affinché un uomo la possa sopportare. Anche se, ora come ora, vuole provarci. Ma come ben ci insegna il mito di Icaro, non potrà che precipitare rovinosamente nel mare color del vino.

(di Alessandro Cristofari)