Imboscata a Teutoburgo. I Germani sconfiggono le legioni di Roma

Augusto camminava su e giù per l’atrium della sua villa. Il passo pesante, trascinato, non faceva immaginare nulla di buono a servitori e amici che si guardavano bene dal passargli davanti: nessuno voleva essere il capro espiatorio dell’ira del divino Cesare Ottaviano Augusto. Quel giorno l’uomo più potente di Roma era l’ombra di sé stesso. Lui, il vincitore delle guerre civili, il salvatore della Res Publica ed il restauratore della pace, vagava ora con lo sguardo perso stringendo ossessivamente fra le mani le sue vesti. La notizia appena arrivata d’urgenza insieme ad un trafelato messaggero doveva essere veramente terribile. D’un tratto, mentre barcollava verso l’ingresso di una stanza, Augusto si strappò di getto le vesti e sbattendo ripetutamente la testa contro la porta gridò convulsamente le parole: “Varo rendimi le mie legioni!.

Una frase, questa, divenuta leggendaria. Se quella presa nel primo paragrafo sembra semplicemente una licenza poetica di chi scrive, in verità sono gli stessi storici Svetonio e Cassio Dione a ricordare i gesti di sofferenza estrema a cui Augusto si abbandonò alla notizia della sconfitta di Varo in Germania. Prima d’ora nessuno si era messo fra Ottaviano ed il suo obiettivo, né Marco Antonio, il generale più geniale al servizio di Giulio Cesare, né la regina Cleopatra, signora d’Egitto. Il nuovo signore di Roma non temette nessuno: né il Senato e men che meno i Cesaricidi, mentre ora, a frapporsi fra Ottaviano e il suo obiettivo, si erano messi in mezzo dei barbari.

E fra i barbari i peggiori dei barbari, quegli incivili, selvaggi, nudi e pallidi Germani dai capelli di paglia. La battaglia di Teutoburgo, o come la chiamarono i Romani: Clades Variana, “la disfatti di Varo”, fu una delle poche grandi sconfitte a cui andò incontro l’esercito romano. “Grandi” perché Roma fu “grande” anche nelle sconfitte: se proprio i Romani dovevano perdere una battaglia, lo facevano in grande stile. Lo scontro che valse il destino della Germania fu combattuto il 9 d.C. in una fitta foresta dell’attuale regione tedesca della Bassa Sassonia; un vasto territorio da poco conquistato dalle legioni di Roma.

La distruzione delle tre legioni al comando del legato Varo segnarono l’abbandono di ogni velleità di occupazione dei territori al di là del Reno da parte dell’Impero Romano. Il trauma della sconfitta fu così forte per il settantaduenne Augusto, che lasciò scritto a Tiberio nel suo testamento di non superare mai i confini da lui stabiliti per la Res Publica: il Reno ed il Danubio. Al di là v’erano solo foreste, paludi e sanguinari barbari dai capelli biondi.

L’Impero Romano al tempo di Augusto.

 

Prima di Teutoburgo però il princeps di Roma credeva fermamente nella sottomissione dei barbari. E dopo vent’anni di guerra contro agguerrite popolazioni germaniche, a Roma si pensava giunto il momento per introdurre la civiltà in Germania: strade, città, ma soprattutto un’amministrazione civile e lo Stato di Diritto. Per adempiere a questo compito di “civilizzazione”, nell’anno 7 d.C., Augusto scelse Publio Quintilio Varo, un ottimo politico nonché ex governatore della Siria, una delle province più ricche dell’Impero.

Durante l’estate del 9 dopo Cristo, Varo, al comando di tutte e tre le legioni che si trovavano in Germania, si era spinto verso est per schiacciare la ribellione di alcune tribù germaniche: un compito facile per la macchina bellica romana che esprimeva il suo meglio in fase d’attacco. Finita la stagione estiva ed avvicinandosi l’autunno, i Romani si mossero per tornare negli accampamenti invernali che si trovavano ad ovest, Haltern, Castra Vetera e Colonia. Per districarsi attraverso le fitte selve, i sentieri e le intricate strade poco battute della Germania, Varo si affidò a delle guide locali, membri delle tribù alleate di Roma.

A fianco del Legato romano c’erano anche dei membri delle tribù germaniche da tempo ormai sottomesse a Roma, fra questi v’era un nobile principe dei Cherusci, Arminio. Il nobile Cheruscio, insieme a suo fratello, era stato inviato ancora bambino a Roma come ostaggio. Qui i due germani erano stati allevati come Romani, ricevendo titoli nobiliari e riuscendo a fare carriera nei reparti di “auxilia” dell’esercito. Varo non sospettava che proprio Arminio, uno dei suoi migliori ufficiali, aveva pianificato un dettagliato piano per poter distruggere le tre legioni romane.

Il principe dei Cherusci, arrivato in Germania insieme alla sua unità di cavalleria ausiliaria, (gli ausiliari –auxilia– erano truppe di supporto alla legione romana, sia di fanteria che di cavalleria. Il loro status era differente perché non avevano la cittadinanza romana, anche se potevano ottenerla alla fine del loro lungo servizio nell’esercito), doveva favorire l’integrazione e l’adesione dei Germani alla civiltà e alle ricchezze di Roma. Non appena arrivato nella sua terra avita invece, Arminio iniziò a sobillare le tribù ribelli, partendo proprio dai Cherusci, il suo popolo.

Il piano del traditore germanico era studiato nei minimi dettaglia per poter sopraffare la preponderate forza militare romana. Le guide delle legioni erano corrotte e sapevano esattamente dove e quando condurre Varo ed il suo esercito, una simulata ribellione dei Brutteri fece il resto: Varo si mosse fiducioso per domare la ribellione senza prendere nessuna precauzione: si sentiva sicuro.

Uno dei reperti trovati nella selva di Teutoburgo dagli archeologi. Una maschera da cavalleria romana conosciuta come “Maschera di Varo”.

 

Le tre legioni del legato romane, la XVII, la XVIII e la XIX, si erano allungate a dismisura per seguire lo stretto sentiero che si allungava in una fitta e densa foresta ai piedi della montagna del Kalkriese. Più di 16.000 legionari ed ausiliari, senza contare il vasto numero di civili che seguivano le legioni, si muovevano a fatica nelle foreste perché: “[…] portavano con sé molti carri, bestie da soma […] non pochi bambini, donne ed un certo numero di schiavi […] nel frattempo si abbatteva su di loro una violenta pioggia ed un forte vento che dispersero ancor di più la colonna in marcia…” (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 20, 1-3). E fu proprio allora che le forze di Arminio attaccarono.

Il Cheruscio era riuscito a raccogliere intorno a sé una vasta confederazione di tribù capace di contare 20-25.000 guerrieri provenienti dalle più diverse tribù come i Cherusci, i Bructeri, gli Usipeti, i Sigambri, i Marsi gli Angrivari e i Catti. Tutto era stato calcolato alla perfezione e l’imboscata si risolse in un macello. Innanzitutto, i Romani si trovavano in un terreno sconnesso, una foresta vergine dove non potevano assumere le formazioni che avrebbero potuto garantirgli la salvezza e la vittoria.

Non solo, spalmata per km, la lunga colonna in marcia poteva essere attaccata con tempistiche diverse senza che l’avanguardia o la retroguardia se ne accorgessero. Il piano di Arminio era così ben congegnato che il luogo stesso dell’agguato era stato scelto e modificato. Per prima cosa la strada originaria era stata deviata, il vero sentiero era stato allagato così da obbligare i Romani a passare il più vicino possibile al monte Kalkriese, un luogo dove il passaggio era così ristretto che in alcuni punti i legionari dovevano marciare in fila indiana.

Mentre il nuovo sentiero, appositamente creato, era una via senza uscita; Arminio aveva fatto costruire sul fianco sinistro di tutto il percorso un terrapieno e delle palizzate in legno appositamente mimetizzate, dietro le quali si erano appostati i guerrieri ribelli. Il barbaro romanizzato doveva assolutamente vincere; se non fosse riuscito a distruggere in un solo colpo le tre legioni era più che certo che i Romani si sarebbero vendicati del suo tradimento in maniera terribile.

La fitta pioggia di giavellotti e proiettili, il continuo assalto di barbari inferociti che si nascondevano nella boscaglia causarono ingenti perdite ai Romani, nonostante ciò i Centurioni e tutti gli ufficiali riuscirono a mantenere l’ordine così che verso sera i legionari riuscirono a costruire un accampamento.

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La situazione era in ogni caso disperata: Varo si trovava in una regione sconosciuta, senza guide del luogo, con numerosi feriti e circondato da Germani assetati di sangue che sapevano muoversi con destrezza nella foresta, ed anzi, proprio nella fitta boscaglia riuscivano ad esprimere al massimo il loro potenziale bellico. Il giorno seguente, dopo aver distrutto gli approvvigionamenti superflui le legioni si misero in marcia cercando di mantenere alla meglio la formazione. Durante la marcia in cerca della salvezza gli alberi, la vegetazione e il terreno impervio continuavano ad obbligare i soldati romani a rompere le formazioni così da renderli facile preda dei veloci e poco armati Germani.

Moltissimi soldati vennero uccisi, mentre i più sfortunati venivano catturati, torturati e sacrificati sugli altari degli dèi dei Germani. Alla fine del secondo giorno si era scatenato anche un violento temporale che rese ancora più impacciata la fanteria pesante romana nel mezzo della foresta. I barbari armati alla leggera, con mazze, bastoni e spade lunghe, avevano la meglio dei legionari romani che potevano dare il meglio di sé quasi unicamente in uno scontro campale di corpo a corpo ravvicinato.

Stanchi, demoralizzati e spaventati i soldati di Varo faticavano pure a tenere alti gli scudi che, impregnatisi d’acqua, erano diventati estremamente pesanti. Date le condizioni meteo costruire un accampamento era impensabile. All’alba del terzo giorno ogni speranza era svanita: Varo e molti alti ufficiali dell’esercito si suicidarono per non essere uccisi dai barbari e mantenere l’onore, mentre molti legionari cercarono scampo nella selva di Teutoburgo avanzando in formazione compatta.

A prendere in mano la situazione fu Eggio, prefetto del campo, che guidò una sortita contro uno sbarramento germanico sui lati del sentiero, ma respinti e circondati i Romani vennero infine assaliti e distrutti. Pochissimi furono quelli che trovarono scampo nascondendosi nella selva o fuggendo lontano dagli scontri, ancor meno furono quelli capaci di raggiungere il confine del Reno e la salvezza. Dopo un primo impatto di paura e terrore a Roma le cose si tranquillizzarono quando fu chiaro che i Germani non avrebbero invaso in grande numero la Gallia e l’Italia.

Roma riuscì ad organizzare subito la sua feroce vendetta, ma solo sei anni dopo il generale Germanico tornò sul luogo dello scontro, condotto dai superstiti. Lo spettacolo che si mostrò agli occhi del giovane generale e del suo esercito fu agghiacciante. È Tacito, Annales I, 61, a darne un’efficace diapositiva:

« Germanico giunse sul luogo della battaglia, ove] nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse […] sparsi intorno […] sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni […] »

(di Marco Franzoni)