Le paranoie femministe dopo il caso Weinstein

Chiedere a una donna il numero di telefono è una forma di molestia. Sì, avete capito bene. Lo sostiene Rachel Crooks, ospite al Megyn Kelly Today, parlando del presunto comportamento violento che Donald Trump, nel 2005, avrebbe assunto nei suoi confronti. «Entrò nel mio ufficio, io sedevo alla mia scrivania e lui si mise dall’altra parte di essa e mi chiese il numero di telefono»: questa la “sconvolgente” testimonianza della donna, che ha proseguito ammettendo di avergli effettivamente dato il proprio numero ma – attenzione! – solo perché si sarebbe sentita «sopraffatta» da lui, dato che poco prima aveva tentato di baciarla. Ricapitolando, quindi, il terribile crimine del Presidente consisterebbe in un tentativo di approccio. Nessuna violenza né fisica né psicologica, solo l’ordinario comportamento che tutte le persone normali assumono quando sono attratte da qualcuno.

A quanto pare, le femministe ritengono che le donne non siano capaci di dissentire, di dire un semplice “no”. E meno male che dicono di lottare per un trattamento rispettoso della loro dignità! Se le donne hanno le stesse facoltà degli uomini, per quale motivo dovrebbero essere trattate coi guanti di velluto, come animali in via d’estinzione o delicati fiorellini di campo? Perché le femministe stesse le considerano così fragili da non poter sostenere una banale avance senza uscirne traumatizzate?

Semplice: perché dopo aver raggiunto il suo sacrosanto scopo, il femminismo si è visto costretto a cercare un nuovo nemico per poter sopravvivere. A qualcuno forse torneranno in mente le parole di Hannah Arendt, quando indicava proprio nell’ossessiva individuazione di nemici sempre nuovi uno dei tratti caratteristici delle ideologie totalitarie. Così, se un tempo si lottava contro quella che era a tutti gli effetti una condizione di subordinazione all’uomo, in famiglia come nella società, oggi si lotta direttamente contro l’uomo stesso: egli non è che un cancro da estirpare, il Male con la M maiuscola.

Recentemente, questa già marcata misandria del femminismo contemporaneo si è trasformata in una vera e propria caccia alle streghe con lo scandalo Weinstein e la conseguente campagna #MeToo, in una pietosa gara vittimistica volta a dipingere tutte le donne, nessuna esclusa, come vittime di qualche strampalata violenza maschile. Il gioco è semplice: gli uomini hanno sempre torto. Qualsiasi cosa facciano. Dunque, cari maschietti, prendete appunti: provarci è molestia, fare apprezzamenti è molestia, offrire una cena è molestia, prendersi per mano è molestia.

Anche respirare, probabilmente, verrà considerato molestia: in fondo, inspirando, togliete del prezioso ossigeno alle donne che vi stanno attorno! Insomma ragazzi, mettete da parte la spontaneità e chiedete il permesso prima di fare qualsiasi cosa: “Gentile signorina, posso chiederle di concedermi il grande onore di tenerla per mano?”. Suona familiare, vero? È proprio il comportamento che gli uomini assumevano in passato, quando il maschilismo tanto demonizzato la faceva da padrone. Curioso come il femminismo abbia di fatto lo stesso esito della sua nemesi.

Al di là dell’ironia, la conseguenza è ovvia: se uno stupro e una richiesta del numero di telefono vengono messi sullo stesso piano, di fatto le prime vittime di questa psicosi misandrica – per quanto possa sembrare paradossale – non sono gli uomini, ma le donne stesse, nello specifico le vittime di reali violenze. Proprio quelle che le femministe, a parole, dichiarano di tutelare.

Un altro risultato è lo speculare rafforzamento di sentimenti misogini: se la vulgata vuole che “donne” e “femministe” siano sinonimi, si potrebbe pensare che, per combattere le seconde, ci si debba opporre alle prime. Niente di più sbagliato, ovviamente, come già il filosofo marxista Costanzo Preve ebbe a dire: «Il modo in cui oggi il capitalismo affronta la questione femminile è fondato su una mescolanza di maschilismo e femminismo. Lungi dall’essere opposte, queste determinazioni sono del tutto complementari. […] Il profilo “femminista”, che nulla ha a che fare con il vecchio e nobile processo di emancipazione femminile del periodo eroico borghese e socialista, tende ad un vero e proprio obiettivo strategico della produzione capitalistica, la guerra fra i sessi e la correlata diminuzione della solidarietà fra maschi e femmine».

Insomma, siamo sicuri che alimentare questo tipo di psicosi sia la strada giusta? Siamo sicuri che faccia bene alle donne e alla società in generale? Non sarebbe invece più salutare promuovere una sana collaborazione tra i sessi in un’ottica comunitaristica, contro le derive individualistiche e spersonalizzanti di una società che ci vuole rendere una massa di atomi tutti uguali e sostituibili?

(di Camilla Di Paola)