Balthus, Schiele e il ritorno dell'”arte degenerata”

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Triste destino quello del pittore rinascimentale Daniele da Volterra, le cui opere impreziosiscono per l’eternità le mura degli Uffizi a Firenze, della Basilica di San Giovanni in Laterano e della Chiesa di Trinità dei Monti a Roma: giungere ai posteri, nonostante il notevole talento ereditato dal suo maestro Michelangelo Buonarroti, per il suo compito più ingrato.

Ovvero per quando, conclusosi il Concilio di Trento, il Vaticano decretò una dottrina ferrea sulla nudità nell’arte, e il da Volterra, allora sovraintendente delle opere d’arte, fu costretto a operare una massiccia opera censoria sull’affresco del Giudizio universale, dipingendo delle “braghe” piuttosto posticce sulle figure ignude.

Da qui il suo ben più noto soprannome di “Braghettone”, a indicare nei secoli chiunque, non sopportando la vista di una figura concreta e reale, spoglia di orpelli volti a celarne l’essenza, creda di rimediare all’offesa celandone le vergogne alla bell’e meglio.

Grave errore della mente chiusa nella limitata dimensione del presente è ritenere che la porta del passato sia saldamente chiusa alle spalle, stagna e impermeabile. Certo il Rinascimento non tornerà, così come il lume di Michelangelo, Da Vinci e Palladio mai più brillerà tra noi, tuttavia i braghettoni non sono mai morti.

Il censore, il probiviro, il redentore è un essere perennemente alla moda, capace di evolversi secondo lo spirito del tempo e le circostanze, in costante ricerca di un nemico da odiare, di un ordine morale da preservare e di una plebe dispersa, confusa e peccatrice cui redimere i peccati e riportare sulla retta via.

UNA MASSA DA REDIMERE

Un essere, il braghettone appunto, che nel corso della sua bizzarra evoluzione darwiniana ha assunto il volto di due ragazze newyorchesi di 26 e 30 anni, le quali hanno chiesto tramite una petizione che il Metropolitan Museum of Art della Grande Mela rimuova un dipinto del pittore francese Balthus, “Thérèse Dreaming”, del 1939.

Balthus, controverso e provocatorio, ha sovente elevato la figura della pubescente a protagonista delle proprie opere, in pose ammiccanti se non seminude, e per questo non è mai stato nuovo a censure e auto-censure. Tuttavia colpisce stavolta il contenuto della petizione, la quale, scrive bene Ginia Bellafante sul New York Times, “sembra una parodia del bisogno di protezione culturale dei millennials”.

Così recita la suddetta chiamata alla censura, usando sempre la prima persona singolare: “Quando sono andata al MET lo scorso weekend”, “sono rimasta scioccata dal vedere il dipinto di una giovane ragazza in una posa sessualmente suggestiva”, “chiedo che il MET consideri seriamente le implicazioni del mostrare una tale opera d’arte al pubblico”.

Il pacato suggerimento? “Si può rimuovere il quadro dalla galleria, o fornire una maggiore spiegazione del contesto dell’opera, per esempio scrivendo che ‘alcuni visitatori potrebbero trovare l’opera offensiva’, in quanto “visto l’attuale clima di abusi sessuali e di denunce che emergono ogni giorno, mostrando quest’opera alle masse senza fornire alcuna spiegazione il MET sta, forse inintenzionalmente, supportando il voyeurismo e l’oggettificazione dei bambini”. E meno male che le due ragazze hanno puntualizzato di “non chiedere la distruzione dell’opera”. Bontà loro.

Rileggendone bene ogni parola appare evidente come nulla, assolutamente nulla del suo contenuto -la città, le protagoniste, l’opera, la costante autoreferenzialità e infine il caso Weinstein – potrebbe essere più in armonia con il clima, lo Zeitgeist di oltreoceano nel quale la micronarrativa dell’emozione, il sentimento personale, si impone come legge sul contesto esterno, coinvolgendo arte, politica e qualunque opinione sia ritenuta “offensiva”.

Un nuovo oscurantismo, scrive correttamente Pierluigi Battista, “subdolo e insinuante, che si infila nelle buone cause, si mostra protettivo e umanitario”. Non può non saltare all’occhio infatti come l’appello delle due ragazze, oltre a nascere non da un palese – e inesistente – richiamo alla pedofilia dell’artista ma dal proprio, personalissimo spettro emotivo, si rivolga con spocchia e boriosità inaudite alla presunta ignoranza e suscettibilità delle “masse”, quest’ultime evidente sensibili ad essere plagiate ed istigate al “voyeurismo”.

Né può passare in secondo piano il richiamo al caso Weinstein e al movimento #metoo, il quale “sembra ora travolto da un moralismo ingenuo, che ha perso i suoi connotati razionali ed è arrivato a conseguenze paradossali”, evidenzia la scrittrice Anna Giurickovic Dato, la quale ha posto il quadro di Balthus sulla copertina del suo romanzo d’esordio (qui la sua intervista per Oltre la Linea proprio sul tema della pedofilia).

Un redentore sensibile da una parte, una plebe da redimere e sensibilizzare dall’altra, delle presunte vittime da proteggere ad ogni costo. Così è stato per Balthus, e così per Schiele, i cui soggetti nudi sono stati maldestramente censurati dalla metropolitana di Londra.

Ma tutt’intorno, non possiamo non evidenziarlo, vi è un clima politico e culturale che permette la proliferazione del suddetto oscurantismo – e le oltre diecimila firme raccolte dalla petizione ne sono la prova.

PERVERTIRE IL PASSATO, CONTROLLARE IL FUTURO

È perciò fuorviante, e incompleto, ritenere che quello di “Thérèse Dreaming” sia un caso isolato, frutto di una cavalcata solitaria contro i mulini a vento da parte di due giovani newyorchesi.

Che si parli di “analizzare da un punto di vista critico i filosofi dell’illuminismo riconoscendo il contesto coloniale dal quale provengono”, come ne abbiamo scritto in passato; di censurare i passaggi più crudi di Shakespeare e delle tragedie greche; di cancellare le immagini di Botero per non offendere i bambini in sovrappeso; o, sfiorando ancora più il ridicolo, di bandire la Divina Commedia perché colpisce musulmani e omosessuali, il leitmotiv è sempre lo stesso: piegare il passato alle esigenze e alla morale del presente, decontestualizzarlo dalla propria dimensione per ricontestualizzarlo nel presente, riveduto e corretto affinché sia innocuo e in linea con la nuova sensibilità dominante. Perché?

Perché “chi controlla il presente controlla il passato, e chi controlla il passato controlla il futuro”. Così recita il bispensiero di “1984” di George Orwell; il romanzo che, è lecito sospettare, sempre più persone scambiano per un manuale di istruzioni.

Del potere dell’arte, e delle conseguenze della sua distruzione e sostituzione, ne è stato ben conscio ogni regime religioso o politico emergente ben prima della massima orwelliana: dalla damnatio memoriae romana all’iconoclastia dei templi pagani fino al bando della “entartete Kunst”, ogni nuovo totalitarismo ha prima dovuto fare tabula rasa di ogni simbolo non funzionale alla nuova propaganda.

Oggi che “la dittatura perfetta ha sembianza di democrazia”, come profetizzato da Aldous Huxley, il nuovo regime del Pensiero Unico, un pensiero privo di spigoli e provocazioni, adattabile a qualunque contesto eppure così etnocentricamente occidentale da avere l’arroganza di professarsi universale, non sono necessarie delle truppe speciali, delle “milizie del fuoco” appositamente costituite: in ogni libero cittadino dotato di sentimenti e facilmente istigabile allo scandalo, privo di consapevolezza storica e suscettibile alla pressione sociale, è possibile trovare un braghettone funzionale alle esigenze di una società nella quale la sensibilità del singolo diventa motivo di repressione. “L’arte non è uno specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo” diceva Vladimir Majakovskij. È ancora così, o si sta tentando di fare l’esatto contrario?

Chi non ha compreso ancora che il dogma del “politicamente corretto” è un fiume in piena senza argini né dighe, forse è solo perché ancora non ha sentito l’acqua lambire le caviglie.

(di Federico Bezzi)

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