Ci sono cantautori come Leonard Cohen e John Lennon che sono universali, e poi ci sono le rarità, i cui arrangiamenti, vocalizi e stili di composizione li rendono praticamente inimitabili per i posteri.
Una di queste è sicuramente Amy Winehouse, deceduta ormai più di 6 anni fa; versatile, creativa, originale e cantastorie, in 2 anni – dal Jazz dell’album di debutto, Frank, al British Soul di Back To Black – riuscirà a fare innamorare persino la scena Rap statunitense, Jay-Z in particolare.
Il perché è semplice e cristallino; la velenosità, la punta di acredine e la puntigliosità con le quali trasmetteva il messaggio, spesso drammatico, dei suoi testi. Per comprenderle ed individuarle è sufficiente ascoltarsi Rehab, una sorta di autobiografia incentrata sulla sua persona e sulla sua figura di artista e ragazza tormentata dai suoi demoni e dalle sue paure una volta sola con sé stessa dopo un concerto.
Amy Winehouse, insomma, si racconta, ma non lo fa con un tono depresso, bensì allegro, tipico di un commediante. Con il suo trovare, infatti, momenti di gioia nella tristezza e l’amara ironia nei – pochi – sprazzi di felicità e spensieratezza ci mostra il ritratto di una vita vissuta tra traumi e angosce, dove un giorno si è normali e l’altro automi incatenati in un letto sotto gli effetti alcaloidi ed allucinogeni delle droghe o della depressione.
Come Jim Morrison, Robert Johnson, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain e Brian Jones, esistenze a metà. Non è un caso che, come loro, sia deceduta a 27 anni ed entrata a far parte del tristemente famoso Club 27.
(di Davide Pellegrino)