Il pellegrinaggio sciita a Kerbela: un successo iracheno

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Più di quattordici milioni di uomini, donne e bambini si sono raccolti questo novembre nella città santa di Kerbela (Iraq) per celebrare l'”altro pellegrinaggio” dell’Islam. Si tratta del più grande che abbia mai avuto luogo nella storia, eppure se ne parla molto raramente. Ogni anno, nonostante i gravi pericoli che i pellegrini hanno dovuto affrontare nel corso del tempo – come per esempio la minaccia rappresentata dai militanti di Daesh, o l’ex presidente Saddam Hussein, o l’intolleranza di una élite bigotta – i musulmani sciiti si sono radunati a Kerbela per esprimere la loro voce e riaffermare l’Islam nella sua tradizione più orgogliosa, e cioè la libertà di fronte alla tirannia.

Se sotto la bandiera nera di Daesh il mondo ha conosciuto l’Islam nella sua intolleranza attraverso una decontestualizzazione che ne ha accentuato il fanatismo, l’Islam sciita ha invece mantenuto il suo principio di pluralismo e la sua fame di giustizia. Sono proprio questi sentimenti che hanno salvato l’Iraq dall’oblio. Se non fosse stato per l’editto religioso dell’ayatollah Ali Sistani del giugno 2014, il quale chiamò tutti i «cittadini a difendere il Paese, la sua gente, l’onore dei suoi abitanti e dei suoi luoghi sacri», è probabile che l’Iraq sarebbe stato sovrastato dall’armata del terrore e frammentato nelle sue divisioni etniche e settarie. L’ayatollah Sistani, erudito studioso di Islam sciita, ha rotto con la sua solita “neutralità politica” per restituire l’Iraq a tutti gli iracheni, e per far sì che gli abitanti della zona si unissero nella difesa della propria terra, per evitare l’oppressione. Così facendo, l’ayatollah Sistani probabilmente non solo ha salvato la sua nazione, ma ha anche, attraverso i ripetuti richiami alla resistenza, riaffermato la sovranità dell’Iraq.

In effetti, il Pellegrinaggio di Arbaeen ha proprio a che fare con queste tematiche. Arbaeen, che in arabo si traduce “quaranta”, indica la fine del lutto per il martirio dell’Imam Husayn. Terzo Imam dell’Islam e nipote del profeta Maometto, al-Husayn ibn Ali fu ucciso nelle pianure di Kerbela mentre sfidava la tirannia di Yazid ibn Mu’awiya, un uomo il cui gusto per il sangue e la dissolutezza rispecchia molto quello di Daesh. Il nome dell’Imam Husayn e l’eredità che ha veicolato hanno di fatto controllato ed animato per tredici secoli la sua comunità, nonostante questa fosse attraversata da fedi, etnie e costumi differenti. Quest’anno la festività di Arbaeen si è attestata come la vittoria irachena contro il dogma cancerogeno che gli esponenti del clero di Daesh hanno tanto decisamente provato ad istituire in sostituzione del codice normativo.

«La presenza del gruppo terrorista Daesh in Iraq si è effettivamente eclissata dopo la liberazione della città di Rawa, nella provincia occidentale di Anbar», ha dichiarato alla stampa il 17 novembre il Ministro dell’Interno Qasim al-Araji. Bisogna ammettere che per un paese come l’Iraq essere riuscito a far fuori gli eserciti di Daesh dai suoi territori non è stata un’impresa da poco, soprattutto se consideriamo quanti ostacoli ha dovuto affrontare prima di ritrovare nuovamente il proprio equilibrio politico. Dopo un’occupazione del terrore e un fallito tentativo di secessione, l’Iraq si è ritrovato in una nuova prospettiva di vita. Molti hanno sostenuto che la vittoria dell’Iraq sia stata determinata dall’impeto che ha animato la fortissima mobilitazione popolare e le forze armate, quello stesso slancio che, tredici secoli fa, portò 72 guerrieri a sostenere il loro Imam davanti ad un esercito di diverse migliaia di soldati: il desiderio di difendere la propria dignità ed il desiderio di libertà dall’oppressione. Non è senza una certa poesia e forse anche ironia che la stessa terra la quale ha visto così tanti spargimenti di sangue e dispute settarie nel corso dei decenni e dei secoli, si trovi oggi al centro dell’attenzione generale, rappresentando il meglio che l’umanità possa offrire.

Ogni anno, per diverse settimane, da oltre tredici secoli, la città santa di Kerbela lascia soprassedere tutte le meschinità in corso per ospitare i pellegrini dell’Imam Husayn, e, per il bene del suo popolo, la sua generosità è stata nutrita, protetta, allattata e confortata da milioni e milioni di fedeli, ai quali non è mai stato chiesto nulla se non la promessa di portare un messaggio di fraterna compassione. Kerbela ora fa impallidire la Mecca e il Pellegrinaggio Hajj, che si attesta su una stima di circa dieci milioni di partecipanti. E mentre da un punto di vista religioso forse questo produce poche conseguenze, bisogna notare che il Pellegrinaggio di Kerbela è riuscito dove quello di la Mecca non avrebbe potuto. Quando la Mecca è diventata sinonimo di oppressione religiosa – ogni anno i pellegrini sciiti ed altre minoranze subiscono le brutalità del potente clero dei Saud -, Kerbela è diventata un simbolo di coesione religiosa e tolleranza. Si potrebbe sostenere che il Pellegrinaggio di Arbaeen rifletta l’immagine dei suoi ospiti: gentile, orgoglioso, coraggioso, libero! Eppure una tale brillante testimonianza della libertà ed un tale impegno in direzione del pluralismo rimangono isolati dalle nostre pregiudizievoli argomentazioni politiche. C’è vita oltre il terrore, l’Iraq ha dimostrato oltre ogni misura che la libertà può davvero ispirare gli uomini portandoli alla vittoria.

(da The Duran – Traduzione di Giovanni Rita)

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