La battaglia di Adrianopoli: quando i barbari piegarono l’Impero Romano

Nel corso del IV secolo dopo Cristo l’Impero Romano, benché in crisi economica, politica e militare, rimaneva senza dubbio la più grande potenza del Mediterraneo e dell’intera Europa. Nonostante le numerose guerre civili che avevano contrapposto in maniera sanguinosa generali e politici di tutto l’Impero, il nome di Roma e dei Romani incutevano ancora timore non solo fra i boschi della Germania, ma in tutto il mondo che gravitava nell’orbita del mar Mediterraneo. Sono numerosi i pregiudizi che avvolgono il declino e la caduta dell’Impero Romano, fra questi forse il più radicato è quello della decadenza ed incapacità delle armi romane. Comunemente si ritiene infatti che le legioni romane del tardo Impero siano ormai indisciplinate, composte da barbari, ma soprattutto incapaci di vincere contro qualsiasi nemico. Niente di più falso. Sicuramente gli standard dei tempi di Giulio Cesare e Traiano si erano drasticamente ridotti, la disciplina infatti non era più così draconica, ma questo non vuole dire che l’esercito si fosse indebolito.

Anzi, è proprio nel Tardo Impero che Costantino e i suoi predecessori idearono l’esercito perfetto per rispondere alle minacce odierne dei barbari che premevano sulle frontiere: le legioni vennero infatti divise in due eserciti differenti, il primo è quello dei Limitanei, la guardia di frontiera addetta a proteggere i confini dell’Impero, i passi doganali e le fortezze di frontiera. Il secondo esercito è quello dei Comitatenses, l’esercito campale accampato nelle città composto da veterani forgiati dalle battaglie e da grandi coorti di cavalleria. L’esercito aveva anche cambiato la sua fisionomia nel tempo; con l’immistione di numerosi barbari e la minaccia costante dei popoli delle steppe e dei germani le armi pian piano cambiarono per poter rispondere a dovere contro le nuove minacce. Le legioni di fanteria pesante sono un lontano ricordo, mentre è la cavalleria a diventare sempre più il centro dell’arte militare romana. Vennero infatti incrementati i corpi di cavalleria, fra cui si inserirono i Clibanarii o Catafrattarii, cavalieri interamente ricoperti di ferro da capo a pieni che combattevano con lunghe lance da cavalleria.

Roma non stava agonizzando, anzi riusciva ancora a rispondere colpo su colpo; come nel 357, quando l’imperatore Giuliano con 13.000 uomini sconfisse ad Argentoratum (Strasburgo), un immenso esercito di 35.000 Alemanni e barbari germanici. Sicuramente la crisi era profonda, ma ciononostante niente era perduto. All’alba del 376 l’impero era definitivamente diviso in due; Augusto (Imperatore) dell’Impero d’Occidente era Graziano, mentre in Oriente a comandare c’era suo zio Valente. Benché poi sarà l’impero d’Occidente a cadere, “l’inizio della fine” si verificò a Oriente: la rovina di Valente e dell’intero esercito orientale arrivò su una scialuppa di salvataggio. Erano i Goti in fuga dalle pianure ucraine. Il popolo dei Goti, che i Romani conoscevano ormai da tempo e che avevano già diverse volte sconfitto, abitava le distese dell’Ucraina meridionale e le foreste della Romania al di là del Danubio. Questo popolo germanico si era nel tempo diviso in due: i Goti dell’Ovest o Visigoti e quelli dell’Est, conosciuti anche come Ostrogoti. Ambedue dovettero affrontare, nei primi anni del IV secolo d.C., l’arrivo della minaccia dei popoli nomadi. Popolazioni eurasiatiche provenienti dalle steppe russe e mongole si erano infatti mosse verso Occidente in gran numero, fra queste primeggiava il popolo degli Unni, che seminerà terrore in tutta Europa negli anni a venire. Gli Unni attaccarono i Goti che vennero annientati. Coloro che si arresero vennero ridotti in schiavitù o cooptati nell’esercito, mentre chi non volle arrendersi al dominio unno dovette scappare verso Ovest.

I Visigoti scelsero la fuga e giunsero sulle rive del Danubio stanchi, affamati e disperati. Chiesero alle autorità imperiali il permesso di attraversare la frontiera e di trovare salvezza all’intero dell’Impero. All’inizio la risposta fu negativa, ma Valente aveva bisogno di coloni, soldati e contadini a costo zero e pensò dunque bene di aiutare i Goti ad attraversare la frontiera a patto che lo avessero fatto senza armi e che avessero giurato fedeltà all’imperatore convertendosi anche alla versione ariana del Cristianesimo, quella confessata da Valente. I Goti accettarono e a migliaia furono trasportati dalla marina militare romana attraverso il grande fiume in piena. Fu allora, durante lo spostamento e l’accoglienza dei barbari che il malgoverno romano diede il meglio di sé. I prefetti incaricati di occuparsi del vettovagliamento dei profughi fecero la cresta sugli alimenti, rivendendo sui mercati romani ciò che potevano e dando ai barbari carne di cane, serpente o cadaveri putrefatti. I soldati incaricati di trasportare i barbari permisero a molti di questi di tenere le armi in cambio di oro e di prestazioni sessuali con le figlie e le mogli dei guerrieri goti. La situazione nell’enorme campo profughi continuò a peggiorare fino a che i Visigoti non si ribellarono.

La furia dei Goti, violati nel loro orgoglio, fu tale che le campagne della Mesia e della Tracia furono devastate, i Romani trovati uccisi o ridotti in schiavitù, le donne violentate e le case bruciate. Ogni esercito inviato contro coloro che erano stati accolti come profughi, ma che ora erano la minaccia più grande dell’Impero venne sconfitto; il tutto mentre l’esercito barbarico aumentava di numero grazie agli schiavi liberati e ai barbari che attraversavano, con la complicità visigota, il confine. L’enorme massa di barbari elesse come suo capo Fritigerno, un nobile Visigoto che condusse alla vittoria i profughi di scontro in scontro, senza mai riuscire d’altra parte a conquistare una città: i barbari mancavano infatti delle capacità ossidionali necessarie per conquistare una città fortificata. Valente, che si trovava in Asia Minore decise infine di scendere personalmente in campo. Radunò l’intero esercito di Comitatenses orientale a Costantinopoli, e raggiunta la grande armata si mosse verso Fritigerno e i Visigoti in cerca di uno scontro risolutore. Da Occidente si era intanto mosso anche Graziano, l’imperatore dell’altra parte dell’impero, con i rinforzi necessari, ma Valente non intendeva dividere la gloria della vittoria – di cui era certo – con suo nipote e decise infine di attaccare l’accampamento dei Goti. Questo, come da tradizione per le popolazioni eurasiatiche, era formato da tutti i carri dei Goti messi in circolo in modo da creare una sorta di fortezza. Valente si mosse con un esercito ottimamente addestrato che poteva contare le migliori truppe dell’impero d’Oriente, il cui numero doveva aggirarsi fra i 25.000 e i 30.000 uomini. L’esercito dei barbari doveva essere superiore, senza contare donne, bambini anziani e feriti che rimanevano chiusi dentro il recinto di carri. Una stima probabile si aggira intorno alle quarantamila unità o meno, senza contare la cavalleria alana, unna, ostrogota e visigota che al momento si era allontanata dal campo di battaglia.

Il 9 agosto 378 è ricordato come una giornata particolarmente afosa, e proprio questo giorno Valente decise di schierare il proprio esercito: la fanteria pesante al centro, mentre la cavalleria composta da cavalieri pesanti e leggeri venne schierata sui fianchi. Sul fianco sinistro venne schierati gli Scutari, la cavalleria della guardia. Intanto tutta la fanteria gota uscì dal cerchio di carri e si schierò fra questo e i Romani, della cavalleria barbarica nessuna traccia. Gli eserciti passarono così, sotto il cocente sole d’agosto ed il caldo asfissiante l’intera giornata; nè Valente nè Fritigerno si decidevano infatti ad iniziare lo scontro. Furono proprio gli Scutari, che si erano avvicinati troppo ai Goti rompendo la formazione, a dare avvio alla battaglia. Avvicinatisi con gli archi la cavalleria della guardia iniziò a punzecchiare i Goti che reagirono in massa caricando i cavalieri romani e mettendoli in fuga. Fu in quel momento che comparve fra le colline l’intera cavalleria barbarica composta da Unni, Alani e Goti. Questi caricarono in massa la cavalleria in ripiegamento romana dando inizio a una furiosa mischia. In svantaggio i cavalieri romani si ritirarono verso la fanteria, ma questa, disciplinata e organizzata, tenne il posto, proteggendo la cavalleria allo sbando. Sempre nello stesso momento i Goti fiduciosi caricarono all’unisono le compatte formazioni di fanti romani. La cavalleria pesante romana intanto, dopo un furioso scontro era riuscita ad arrivare fino ai carri, ma troppo tardi si accorse di non avere nessun sostegno da parte della fanteria impegnata nello scontro con i barbari, così raggiunta dai cavalieri unni e alani venne messa facilmente in rotta. Ora la fanteria romana si ritrovava senza alcuna protezione, riproponendo lo schema di Canne a favore, ancora una volta, dei nemici di Roma e dell’aquila imperiale.

La fanteria romana che con grande fatica si stava aprendo una strada fino all’accampamento di carri dei barbari si accorse d’un tratto di essere completamente circondata dalla cavalleria nemica: davanti la fanteria gota gridava e combatteva senza sosta benché in ripiegamento, alle spalle e tutt’intorno cavalieri nomadi scoccavano le loro frecce uccidendo un gran numero di legionari mentre le cariche della cavalleria alana e gota aprivano solchi di sangue fra i ranghi romani. Ammiano Marcellino racconta come “i fanti rimasti allo scoperto si strinsero in gruppi così stipati gli uni sugli altri, che a stento potevano sguainare la spada o muovere le braccia. E a causa della polvere che s’era levata, non si vedeva più il cielo, rimbombante di orribili grida”. Fu una carneficina. I legionari romani resistettero quanto potevano alle cariche della cavalleria nemica, causando grandi perdite al nemico, ma ogni speranza era persa. I soldati stipati e pressati gli uni con gli altri non riuscivano a volte neanche a sollevare la spada, mentre una pioggia di frecce cadeva seminando morte. Era la fine. Sul campo non cadde solo l’intero esercito da campagna orientale, ma lo stesso imperatore.

Due leggende si aggirano sulla sua fine: la prima lo vede morire sul campo, insieme alla sua fanteria nel mezzo della battaglia; un’altra invece racconta di come messosi in salvo venne braccato dai Goti fino ad un mulino dove si era nascosto insieme ai suoi fedeli. I Goti, non sapendo il valore della loro preda decisero di evitare spargimenti di sangue e diedero fuoco all’intera costruzione. Valente sarebbe così morto fra le fiamme. La sconfitta ebbe un eco gigantesco, non era la prima volta che Roma perdeva contro i barbari, ma sicuramente la prima in cui un enorme esercito di invasori si trovava a piede libero per i Balcani dopo aver ucciso l’imperatore stesso. Dopo quella grande vittoria Fritigerno cercò di assediare Adrianopoli, ma invano. Le forze barbariche si diressero allora verso Costantinopoli, ma anche qui le difese della città si rivelarono troppo salde e imponenti per l’armata gota. Quella che viene spesso indicata come l’inizio della fine dell’Impero Romano è invece il punto di ripartenza dell’Oriente e di Costantinopoli. Gli imperatori orientali infatti seppero superare brillantemente la crisi del IV e del V secolo, grazie anche alla topografia dell’impero d’Oriente – diviso in due dal braccio di mare dei Dardanelli – resistendo per altri mille anni e cadendo solo nel 1453 di fronte agli inarrestabili Turchi del Sultano Ottomano.

(di Marco Franzoni)