Breve profilo di Carl Schmitt

Chi è Carl Schmitt? Senza ombra di dubbio, una delle figure più complesse, controverse ed allo stesso tempo affascinanti del pensiero giuridico e politico del XX secolo.

Un banale studente universitario (qual’era il sottoscritto quando prese in mano il suo primo libro su Schmitt), istruito a colpi di pensiero unico a partire dal primo anno di scuola elementare, non può che rimanere alquanto interdetto dinanzi alle posizioni teoriche di questo grande pensatore: il “politico” inteso come ambito peculiare della vita umana fondato sulla distinzione amico-nemico (“ma come si può, alla luce di tutte le definizioni studiate nei manuali universitari, ridurre la politica a questa crudele descrizione?”); il diritto concepito come “unità di ordinamento e localizzazione” (“e i diritti umani che fine fanno? Non appartengono, come si è studiato in tutte le materie e in tutte le salse, all’uomo in quanto tale al di là di ogni sua appartenenza territoriale?”); la storia del diritto internazionale intesa come storia del concetto di guerra (“ma non era la storia del progresso verso l’abolizione di ogni conflitto sulla terra ed il riconoscimento di un minimo di diritti a ciascun uomo del pianeta?”); e tante altre.

Tuttavia, in una mente minimamente pensante e curiosa, a questa strana sensazione iniziale di stupore non può che seguire immediatamente una voglia irrefrenabile di tuffarsi nelle opere di Schmitt, per scoprire gli arcana più profondi del suo pensiero.

Ma proviamo a tornare alla domanda iniziale: chi è Carl Schmitt? Lui stesso si definì “un corvo bianco che non manca in nessuna lista nera”. E forse si può già intuire il perché. Egli non può essere definito come un pensatore “sistematico”, bensì come un autentico “decostruttore”, ovvero un ineguagliabile professionista nell’arte di distruggere le certezze dottrinali e i luoghi comuni più radicati nella cultura accademica.

In altri termini, si può dire che egli era un vero e proprio esperto nell’arte di “filosofare con il martello” (Nietzsche). A tal riguardo, basti considerare la sua riflessione sulla democrazia (dove afferma che “la dittatura non è il contrario della democrazia”), la sua acuta e devastante critica al liberalismo (con la quale mette in evidenza il carattere “apolitico” se non addirittura “antipolitico” di questa dottrina), i suoi attacchi nei confronti dell’approccio positivista allo studio del diritto e le sue battaglie contro l’universalismo politico e giuridico di matrice anglosassone.

In altre parole, citando quanto ha detto Carlo Galli (uno dei maggiori esperti italiani del pensiero schmittiano) in una sua lectio magistralis, si può dire che nella filosofia politica Schmitt stia al pensiero giuridico e politico moderno come in arte Picasso sta al genere figurativo.

Tuttavia, proprio a causa della mancanza di una “sistematicità” nel suo pensiero, le sue riflessioni sono state oggetto di interpretazioni quanto mai contraddittorie. Infatti, come nota Stefano Pietropaoli (altro grande esperto del pensiero schmittiano): “di Schmitt si è detto che è stato realista, conservatore, relativista, nichilista, decisionista, istituzionalista, formalista e poi ancora liberale ed antiliberale, razionalista ed irrazionalista, romantico ed antiromantico, nazista e inviso ai nazisti”. In ogni caso, l’aggettivo che probabilmente meglio di qualsiasi altro gli si addice è proprio quello di “decostruttore”.

Ma forse non soltanto questo. In effetti, se ci si ferma un attimo a riflettere, Schmitt appare, senza dubbio, anche come un vinto. Non perché ha perso la seconda guerra mondiale. Non perché a seguito di essa ha dovuto abbandonare la sua cattedra all’università di Berlino e rifugiarsi nella natia Plettenberg.

Ma perché i suoi concetti, le sue posizioni ed il suo approccio allo studio del diritto e della politica non trovano alcun riscontro in quello che è oggi il pensiero dominante. Una prova di ciò, è proprio quella strana sensazione di stupore che un semplice studente universitario prova non appena viene a contatto con le sue idee.

Attualmente, infatti, nelle scuole, nelle università ed in qualsiasi altro contesto culturale, domina ormai quasi incontrastata quella forma mentis (individualista, liberale, positivista, progressista, universalista ed astrattamente pacifista) contro la quale Schmitt si è battuto nel corso di tutta la sua esistenza.

Tuttavia, egli non ha mai negato di appartenere ad un’epoca ben precisa della storia del mondo, che è terminata tragicamente a seguito di due guerre mondiali: quella moderna. Lui stesso, infatti, disse di essere “l’ultimo rappresentante dello jus publicum europaeum, l’ultimo ad averlo insegnato e indagato in un senso esistenziale”. Ma da ciò, quindi, bisogna dedurre l’inattualità del suo pensiero? Affatto.

Schmitt è un pensatore che, per quanto legato al suo tempo, nelle sue analisi è stato in grado di cogliere ciò che di essenziale ed eterno vi è in una serie di cose di non poco conto: nella politica (la sopracitata distinzione amico-nemico), nel diritto (l’occupazione o appropriazione di un territorio come atto originario di qualsiasi ordinamento politico e giuridico) e nella storia (il fatto che questa non sia una sorta di linea retta che termina nel paradiso terrestre, bensì una linea più volte spezzata dal succedersi di eventi unici e singolari).

Per questo, oggi, in un’epoca in cui domina una narrazione quanto mai lontana ed in radicale contrasto con le posizioni di Schmitt, il pensiero di quest’autore risulta essere straordinariamente attuale.

In conclusione, si può dire che l’insegnamento più importante che oggi possiamo trarre dal pensiero schmittiano, è che nella storia non si può aspettare l’arrivo di qualcuno o di qualcosa, oppure convincersi di seguire una strada che, per quanto tortuosa sia, porti inevitabilmente verso un mondo migliore rispetto a quello passato; la riflessione di Schmitt ci invita ad agire nella storia, ad autodeterminarci (nel vero senso della parola) occupando il nostro spazio nel mondo ed affermando orgogliosi la nostra peculiare modalità di esistenza politica, contro l’avvento di un mondo unipolare annichilito sotto il segno liberale, abitato da individui totalmente anestetizzati e sradicati, privi, in una parola, di qualsiasi identità politica.

(di Lorenzo Disogra)