Inganni del consumismo: il “pensare positivo”

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Nel noto saggio dello psicanalista tedesco Horst-Eberhard Richter (1923-2011), Convivere con l’ansia, edito in Italia per i tipi della Bompiani, è compendiata buona parte dell’esperienza professionale dell’autore specialmente sotto due aspetti principali: il problema del reintegro sociale, e familiare, dei cittadini della Repubblica Democratica Tedesca dopo il 1989, e, soprattutto, i principali processi psico-sociali che accompagnano la vita del consumatore medio occidentale. Il titolo dell’opera in discorso sembra introdurre un prontuario sul modo affrontare, nella vita quotidiana, certe forme di disagio legate a una particolare costituzione caratteriale del lettore. Ma in essa c’è molto di più.

La nostra società ha interiorizzato una spiccata tendenza alla competitività, che differenzia sottilmente, ma sostanzialmente dalla competizione, secondo un processo che va sotto il nome di rimozione della morte. Ciò può risultare banale, scontata, ad una prima fugace interpretazione. Può figurare come normale dinamica di negazione di quanto contrasta il carattere rassicurante dell’essere senziente e dell’avanzare dell’esistenza, o di una normale difesa dell’essere-al-mondo a carattere schiettamente istintivo.

Richter, al contrario, vi scorge un’autentica nevrosi, con un nucleo eziologico ben differente da quello della naturale interruzione delle funzioni organiche. La rimozione della morte, dunque, non implica un fenomeno di negazione, ma di non accettazione. Specialmente in questo punto è lecito indicare il sussistere di una diffusa isteria collettiva.

C’è da chiedersi: è sempre stato così? Probabilmente, e sotto diverse forme. Ad ogni modo, nella società post-moderna non vi è traccia della minima reazione a mezzo di dimostrazione di effettiva forza fisica, e tanto meno di stoica rassegnazione al naturale termine della vita. Non è l’accettazione della morte asettica e da manuale del periodo illuminista, né quella eroica, autodistruttiva di buona parte della letteratura romantica. Figuramoci la bella morte, per onore, virtù, degli antichi!

Zygmunt Bauman, nel suo saggio La società dell’incertezza, mostrava un interessante, ma discutibile, paragone fra il concetto di benessere della società moderna e post-moderna. Nella prima si tendeva a curare l’Io e il corpo attraverso la brutale forza fisica – si evoca l’immagine degli operai che si mantenevano in forma sollevando macine di dura pietra – nella seconda si idolatra il fitness. Più che forma, idoneità fisica.

Più che benessere, legittimazione dell’apparenza. Dunque, non sforzo per la sopravvivenza, ma valore accessorio, ancorché irrinunciabile, per l’accettazione sociale. Un risultato di questo cambiamento è abbastanza evidente: non sempre chi scolpisce in palestra il proprio fisico è poi in grado di svolgere lavori pesanti.

Il benessere diviene ora conformismo. Trasforma la socializzazione in un grande, ridicolo varietà all’insegna del positive thinking. Bandisce, bollandoli come pericolosi, contagiosi, condizioni quali l’insicurezza, la vecchiaia, la malattia organica, l’imperfezione estetica. Tutte cose, queste, che contravvengono all’immagine di perfezione premeditata voluta dai tecnici della persuasione di massa. Ogni determinazione – nell’accezione spinoziana di negazione – si affronta tremando, con paura, spesso distruttiva.

È in questo punto che il concetto di accettazione della morte viene fatto coincidere, ad arte, con quello di comunione con la morte. Un qualcosa di vecchio, retrivo, reazionario, contrario, come flusso specialmente, al Progresso. In altre parole, quanto di più visceralmente aborrito da un mercato che sembra davvero distribuire la morte come una pillola per la pressione. Il post-moderno ripudia il metafisico, ma non disdegna la religione, che o transustanzia o sostituisce.

Nei rapporti interpersonali tutto è improntato all’ottenimento di premi morali per aver raggiunto da gregari la perfezione; mentre invece che succede a chi non vi riesce? E’ un autentico supplizio di Sisifo. Gli psichiatri additano i mezzi di comunicazione di massa come la causa principale dei disturbi dell’alimentazione, e della morbosa diffidenza di numerosi soggetti.

Come già detto il benessere, sempre inteso come fitness, concepito come valore sociale positivo, impone la conformità a certi modelli estetici adatti per ciascuno dei due sessi: la magrezza e la provocazione nelle donne, il tono muscolare e il disfattismo negli uomini – e naturalmente non finisce qui!

Come valore sociale positivo, il benessere così spiegato diviene il mezzo irrinunciabile per adire alle più alte sfere dell’ammissibilità, della considerazione; guai pertanto a chi non vi si conforma, e di conseguenza guai a chi si mostra seguace del contravventore, a chi protesta, a chi dissente anche nel modo più candido ed innocente.

Sono le donne, con la loro costituzione mentale predisposta alla prevenzione, alla circospezione e alla cautela a soccombere per prime anche fisicamente a questi modelli; e sono gli uomini, che vedono giustificati valori come il disfattismo, l’arroganza, la prosopopea, a cedere per primi a questi modelli trovando quindi la strada più facile per l’ostentazione della propria surrogata prestanza.

Il risultato? I rapporti di coppia divengono sempre meno desiderati. Si riscontra anche una reviviscenza del sessismo, non più nella sua accezione storicamente costituitasi, ma come l’insieme di manifestazioni nevrotiche che hanno alla base risentimento, complessi di inferiorità, inadeguatezza, insicurezza: una fragorosa, delirante stonatura, annesso e connesso della pericolosità del positive thinking.

(di Elio Cassiodoro)

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