Terminata un mese fa e ormai stata visionata da tutti, pienamente acclamata dalla critica, la terza stagione di Fargo ha emesso i suoi verdetti. Un Ewan McGregor al solito stellare ha guidato il palcoscenico in modo sublime, spalleggiato da attori di livello assoluto che hanno contribuito a tessere l’ennesima trama stupenda ambientata nel mondo criminale del Minnesota.
Tra questi spicca certamente David Thewlis, britannico come McGregor, che interpreta il malvagissimo Varga, secondo colosso su schermo insieme ai due personaggi interpretati dallo scozzese. Quasi a rimarcare una classe di tipo spiccatamente europeo che la terza serie mostra – in questo sì – raffrontandosi direttamente con la prima. Ed uscendone vincente.
Non voglio dilungarmi a parlare della terza stagione, ma di Fargo come universo, come ambiente fantastico e allo stesso tempo terribilmente realistico. A Fargo come simbiosi dell’estremo umano.
Fargo non è un giallo. Forse è un thriller, sebbene sia temperato da diverse componenti ironiche, a volte in pieno stile Tarantino (soprattutto la seconda e la terza serie). In Fargo, sappiamo già tutto subito. Non dobbiamo cercare il colpevole, che ci viene servito su un piatto d’argento.
In Fargo, apprezziamo i dialoghi e i sottofondi musicali, come quando, in un episodio molto indovinato di questa terza stagione, Prokof’ev con il suo Pierino e il Lupo accompagna le gesta dei protagonisti. In maniera talmente profonda, “artigianale” e complessa da risultare forse la migliore rappresentazione visiva del capolavoro sovietico, al pari di quella già apparsa in un’ altra pietra miliare, quel Musica Maestro firmato Walt Disney che dava a quei tromboni e agli archi forme soffici, vellutate, nella grande tradizione dell’animazione del secolo scorso.
In Fargo, infine, ci godiamo una delle più belle fotografie mai concepite per una serie televisiva. Alcuni paesaggi mozzafiato, con quella neve onnipresente, dominante, quasi soffocante, lasciano senza parole.
Nonostante il settore ci abbia ormai abituato da più di un decennio a sceneggiature di un’ispirazione mai vista, dal contenuto spesso profondissimo, in barba al vecchio predominio del cinema da sala ormai tramontato.
Potrebbe non esserci una quarta stagione, stando alle voci provenienti dai quadri dirigenziali della FX. Il creatore Noah Hawley potrebbe aver dato tutto? Chissà. Di certo, non sarebbe atteggiamento da disprezzare, in un mondo in cui la corsa alla produzione potrebbe distruggere la creatività di quella che mi permetto di definire una vera opera d’arte.
E se anche si cedesse alla tentazione del denaro, nulla potrà cancellare i ringraziamenti dovuti ad Hawley, come a Martin Freeman, Billy Thornton, Patrick Wilson, Kirsten Dunst, Ewan Mc Gregor e tutti gli splendidi protagonisti di tutte le tre splendide stagioni (permettetemi: anche della bistrattata seconda).
Intanto, laggiù nel Minnesota, una scia di sangue obbliga ad usare nomi fittizi per rispettare i superstiti. Non dimenticatelo mai.
(di Stelio Fergola)