Cosa può dirci lo scontro tra Cina e India?

Cina e India, insieme, rappresentano la costola dell’alleanza informale che ormai da dieci anni ha ribaltato il sistema di interdipendenza globale, i BRICS. Dei BRICS, Cina e India possiedono più del 90 % del PIL e della popolazione e, insieme alla Russia, rappresentano le uniche tre forze dotate di deterrente nucleare, alleate tra loro, realmente antiamericane. Sulla consistenza o meno della categoria BRICS si è detto molto. Negli ultimi tre anni, soprattutto dopo il summit di Fortaleza, nel quale Sergej Lavrov tentò di dare statuto informale agli obbiettivi della convergenza, i BRICS si sono disciolti in un sistema di alleanze ineguali: molto forte quella tra Cina e Russia, deboluccia quella tra Russia ed India, problematica quella tra Cina ed India. Il rapporto tra i due Stati asiatici quindi è la reale cartina tornasole dello stato di salute dell’alleanza antiatlantica de facto, e della stabilità del triangolo Russia/Cina/India.

Il progressivo sinocentrismo dell’alleanza e il contestuale rafforzamento di altri luoghi d’incontro (come la SCO o gli incontri bilaterali russo-cinesi) ha messo l’India in una posizione laterale, che mal si addice a una economia in espansione verticale e a un governo che, soprattutto per flettere i muscoli internamente, ha ridiscusso i principi cardine della politica estera nazionale. Questo ha creato più di un malumore, che si è riflettuto nei freddi rapporti diplomatici tra Cina e India, sfociati nelle recenti dispute territoriali; le quali sono innocue su di un piano reale, ma indicative di un rapporto che dopo un decennio di miglioramento è tornato a deteriorarsi su vecchie e nuove questioni. Il motivo per il quale una secessione (informale o formale che essa sia) dal campo multipolarista dell’India sarebbe una catastrofe in termini geostrategici è dato dalla sua dimensione, dal suo ruolo geografico di forza egemone nell’Oceano Indiano e dal potenziale destabilizzante della sua conformazione sociale.

ENTRARE NELLA SCO PER NON ENTRARE NELLA NUOVA “VIA DELLA SETA”

Il primo segnale della distanza tra India e Cina è stata l’assenza della prima al forum che Pechino aveva costruito per pubblicizzare la nuova “Via della Seta”, macroprogetto strategico che necessita della complicità di tutte le più grandi economie asiatiche. Il maggior timore indiano, che la ha portata a boicottare apertamente l’iniziativa, è stata l’eventualità che il corridoio passasse attraverso la zona del Kashmir, che l’India ritiene indebitamente controllata dal Pakistan. Questi timori, esternati dal Global Times e criticati fortemente dalla stampa cinese, sono solo la punta dell’iceberg che minaccia di far affondare le relazioni tra Cina ed India. I legami tra Pechino e Islamabad, al centro del rifiuto di Dheli di partecipare al progetto commerciale cinese, sono noti e ormai storici. I progetti che Cina e Pakistan hanno implementato sono decine, e alcuni dei più importanti riguardano anche il commercio internazionale a guida cinese che Pechino vorrebbe realizzare. Il porto di Gwandar, finanziato e “affittato” dai cinesi per uno sbocco sull’Oceano Indiano, ne è testimonianza. L’India teme, tuttavia, che il legame sino-pakistano sia solo l’ultimo passo di un progetto di accerchiamento. Di accerchiamento (soprattutto diplomatico) della Cina ai danni dell’India ha parlato apertamente Rajesh Rajagoplan in un articolo del giugno 2016[1], dimostrando una certa disinvoltura analitica che ha il mondo indiano di riflettere sulle mosse cinesi.

Insieme ai legami col Pakistan, Dheli è preoccupata dal possibile schieramento di truppe cinesi in Afghanistan, dei fortissimi legami economici tra Birmania e Cina, e dalla politica diplomatica che la Cina sta operando sulla costa orientale dell’Africa, con la notizia che Pechino installerà una base militare a Gibuti, all’imbocco di una delle arterie del commercio tra Mediterraneo e Oceano Indiano. Queste azioni, interpretate da taluni settori indiani come minacciose e lesive della libertà di commercio e di azione indiana, contrastano con i tentativi cinesi di inserire, invece, l’India nel novero delle nazioni multipolariste. La stessa Cina ha invitato l’India al forum sulla “One Beatl, One Road”, e sempre la Cina propose di inserire l’India all’interno dei dialoghi militari che ormai da tempo Pechino intesse con gli omologhi russi.

Questo ambivalente atteggiamento si spiega nel peso specifico indiano: nessun progetto di integrazione eurasiatica ed antiatlantica può realizzarsi senza la partecipazione (o almeno la benevolenza) indiana, ma la Cina non è disposta a lasciare ad altri la guida di tale integrazione. La decisione di Dheli di entrare nella SCO, quindi, si può leggere come la risposta indiana alla possibilità di rimanere isolati. Nel gioco sino-indiano, attualmente, il turno è cinese e l’inerzia sembra portare verso una progressiva sinizzazione del processo di integrazione eurasiatica. A fronte di queste considerazioni, un isolamento indiano sarebbe deleterio per tutti, e la partecipazione dell’India ad un forum come la SCO un guadagno per tutti: per la Cina, al fine di non lasciare la futura seconda economia mondiale a giocare da battitrice libera, e per l’India, che ottiene in questo modo un campo di battaglia diplomatico dove interloquire circa i progetti sino-pakistani. L’integrazione diplomatica sino-indiana e l’accetazione di Dheli di dialogare apertamente con i cugini pakistani è un passo indietro per evitare di integrarsi economicamente e strutturalmente nella Nuova Via della Seta. La facoltà indiana di portare nello SCO il suo bagaglio di dubbi primariamente sulla Nuova Via della Seta, ed in secondo luogo in generale sulla sinizzazione dell’integrazione continentale, gli permette di dire la propria sulle modalità di implementazione della stessa via commerciale, togliendo ai cinesi il monopolio del discorso integrativo.

FUGGIRE DALLA DICOTOMIA

Narendra Modi è asceso al potere in India con un progetto ben chiaro: trasformare una economia galoppante e uno Stato fragile in una superpotenza a trecentosessanta gradi. Questo attivismo contrastava con la politica estera del Partito del Congresso, che aveva sempre tentato di risolvere in primo luogo i (numerosi) problemi interni utilizzando la geopolitica come una leva diplomatica per rafforzare lo stato indiano. Narendra Modi, da un lato stimolato dalla riflessione nazionalista hindu e dall’altro profondamente insoddisfatto della postura attendista dei governi di centrosinistra, già nel suo primo anno di governo aveva fatto gridare a un netto cambio di passo rispetto ai precedenti governi ed al dogma del Non-Allineamento: un cambio di passo tutto interno alla necessità indiana di mettere nei posti giusti le energie della propria borghesia ed aprire più mercati possibili. Così ne parla Jaideep Prabhu:

Yet to carry the region, India will need tremendous assistance from countries that have the technological and financial wherewithal to support its ambitious growth. As a result, India is courting countries in its region such as Nepal, Seychelles, Sri Lanka and Mauritius with as much enthusiasm as it is reaching out to economic powers such as the United States, France, Japan and Australia. There is an enamourment among scholars as well as the public for doctrines and though it may be tempting to term this emphasis on the region as the ‘Modi Doctrine”[2]

Al fine di realizzare questo progetto è stato necessario per Dheli uscire dalla dicotomia che abbiamo dettagliato poche righe sopra. Al ricatto strategico del “O con gli Stati Uniti o contro di loro”, dissolto dall’ascesa cinese, la borghesia indiana sta risponendo uscendo dagli schemi, cercando di posizionarsi in altri quadranti in posture che gli lascino più libertà di movimento. Solo in questa ottica le missioni africane di Modi e il recentissimo viaggio dello stesso in Israele, in una regione in cui l’India ha, per ora, pochi interessi.

Impossibile non notare che gli interessi indiani al di fuori del quadrante suo proprio siano di sponda (e in contrasto) con quelli cinesi: l’India sta tentando di rimanere il riferimento capitalistico di alcune nazioni africane (Kenya e Madagascar su tutte), e cerca di darsi un tono diplomatico prendendo implicitamente posizione nella annosa questione israelo-palestinese, proprio come sta facendo la Cina in questi mesi, avallando la tesi dei “Due popoli/due Stati”. Esternare la propria spinta borghese è proprio di quelle nazioni a economia di mercato, dove larghi settori della borghesia chiedono un nuovo passo in direzione della ristrutturazione militare e politica dello stato ma questo è impossibile per cause di forza maggiore. Modi, non potendo modificare lo status quo militare (che vede l’India al di sotto delle sue potenzialità) se non in tempi lunghi, tenta di aprire mercati utilizzando la forza propulsiva del dinamismo diplomatico.

LA CINA PARLA COMUNQUE DI DIPLOMAZIA

Pechino, ai dissapori e alle incomprensioni, reagisce in due modi. Il primo è premere sulla integrazione diplomatica eurasiatica, tentando di creare un dialogo costante tra tutti i maggiori attori asiatici, dall’altro assicurandosi di avere alleati sicuri qualora la secessione indiana dal campo antiamericano diventasse palese. Il primo punto ha, come è naturale che sia, il dialogo tra India e Pakistan circa il Kashmir. Un Kashmir pacificato è nelle intenzioni e nei desiderata cinesi per molteplici motivi: sia per la centralità di tale zona nel contesto della “One Belt/One Road” sia perchè garantirebbe un ottima base di partenza per la definitiva demilitarizzazione della zona centroasiatico/afghana. Infatti, esulando dalla proverbiale riservatezza cinese, la Cina si è sentita in dovere recentemente di riaffermare la sua posizione sul Kashmir[3], ribandendo la sua equidistanza tra le rivendicazioni incrociate di Islamabad e Dheli ed auspicando una consutazione trai kashmiri circa il loro futuro. I recenti scontri che stanno infiammando da mesi la regione non hanno aiutato il dialogo. L’esercito indiano (in una fase di nervosismo, come ha testimoniato il recente battibecco tra un generale cinese ed un colonnista militare indiano in ritiro[4]) ha accusato ripetutamente i loro omologhi pakistani di fomentare la rivolta e di fornire materiale da campo ad alcune sigle locali. Internazionalmente molte nazioni islamiche (Marocco, Iran, Egitto, Turchia ecc) hanno mostrato il loro appoggio ai musulmani kashmiri, considerati da sempre sodali del Pakistan. Questo non ha fatto altro che esacerbare il sentimento antislamico del governo Modi, già di per sé attraversato da sentimenti revanchisti contro la minoranza islamica.

COSA RIMANE DELLA GUERRA?

Alla luce di queste proposte interpretative, i recenti screzi sul confine tra Cina ed India, mai risolti ed al centro già di un conflitto all’inizio degli anni Sessanta, sono il sintomo di questa incomprensione che tuttavia riposa su una più profonda e complessa antinomia strategica. Il richiamo del Buthan, in difesa della sua integrità, dell’esercito indiano, ha acclarato che seppur congelati, i conflitti tra le potenze asiatiche non sono sopiti. In particolare, l’arco Nepal-Buthan-Bangladesh rappresenta un “Cordone sanitario” visto, a stagione alterne, come una difesa o come un blocco da parte ora della Cina ora dall’India. La forte volontà cinese di inserire il Tibet e la zona dell’Himalaya dentro la crescita cinese, materializzatasi tramite la costruzione di una strada nella zona contesa, si scontra con un volere simile dell’India, tutto interno alla precedente volontà di esternare la spinta capitalistica propulsiva indiana. La guerra, stimolata dal comportamento indiano e non rifiutata come orizzonte dalla Cina (che ha scelto tuttavia di eseguire la sua esercitazione/parata militare nella Mongolia Interna, forse proprio per non esacerbare gli animi) si configura in questo modo come il naturale sbocco dei timori indiani e delle mire cinesi. Per disinnescare quindi questa opzione (che sarebbe devastante per gli interi assetti globali) è necessaria una spinta all’integrazione eurasiatica in contesti, tuttavia, che limitino l’egemonia cinese nel dettare tempi e modalità di questo percorso. Militarmente un conflitto tra Cina ed India raramente potrebbe estendersi oltre la zone interessata, senza inteventi esterni. Per Hindustan Times Aaron Sushil traccia il possibile scenario di una guerra di confine: “limited in scope and short in duration, rather than a protracted, large-scale, force-on-force campaign” in cui, secondo Aaron, la Cina avrebbe indubbia vantaggi posizionali[5].

Sempre Aaron descrive, tuttavia, la debolezza dell’India, che, a suo modo, non dovrebbe cadere nella tentazione di provocare militarmente la Cina e di depotenziare la diplomazia. A oggi lo scontro militare tra Cina ed India dovrebbe quindi rimanere un sintomo di una più profonda insoddisfazione, continentalmente diffusa, per il modello cinese di integrazione commerciale e politica. Insoddisfazione che Pechino non dovrebbe sottovalutare.

[1] Rajesh Rajagoplan, As India’s power grows, China’s containment strategy will get frenetic”, uscito su The Economic Times, il 12 Giugno 2016.

[2] Jaideep Prabhu,Do we finally have an assertive foreign policy under PM Narendra Modi”,uscito su DNA il 13 Aprile 2015.

[3] Shahid Amin, “China’s stance on Kashmir”,uscito su Pakistan Observer 7 Giugno 2017

[4] http://theduran.com/tv-debate-chinese-indian-military-officers-ends-warning-war/

[5] Sushil Aaron, “What the next India-China war might look like”, uscito su Hindustan Times il 28 Gennaio 2017

(di Lorenzo Centini)