Il mito occidentale del Curdo, novello “buon selvaggio”

La sovraesposizione mediatica cui è sottoposta la questione curda nel contesto dell’attuale Mashreq arabo balza oggi agli occhi degli spettatori e lettori occidentali più distratti. Non è tanto il secessionismo curdo in sé, dalla storia meno ‘candida’ di quanto appaia, ad essere un interessante oggetto di studio contemporaneo, quanto lo stesso filo-curdismo occidentale, soprattutto nella forma che ha assunto in alcune culture pop dell’arte e politica contemporanea: una riedizione del mito del ‘buon selvaggio’ nel XXI secolo. Il romanticismo del ‘buon selvaggio’ venne partorito in Europa in primo luogo da Rousseau: il grande filosofo, migrante politico europeo con forti manie di persecuzione, noto per la sua rappresentazione dell’opposizione alla società civile esistente nel XVIII secolo col ricorso ad un idealizzato “homme naturel” buono, contrapposto ad un Citoyen corrotto.

Oggi in Medio Oriente la complessità della storia regionale e dei socialismi arabi scaturiti da rivoluzioni anti-coloniali hanno indotto alcuni ‘democratico-radicali’ europei ad alimentare forme idealizzate di municipalismo su base etnica, nicchie post-moderne autogestite che il Pentagono si dovrebbe incaricare di includere, come dopo il 2003 in Iraq, in “safe zones” anti-governative; un laboratorio dirittocivilista mitizzato anche per la (apparente) capacità militare di tener testa a tutti (da Daesh alla Turchia al governo siriano alleato), autosufficienti come le poleis greche sognate dagli illuministi settecenteschi; un popolo novello Atlante, che sorreggerebbe le sorti dell’intera regione; un micro-nazionalismo bonario, estraneo alla storia delle etnie mediorientali confinanti, ma che soddisfa le illusioni cosmopolitiche di un pubblico occidentale storicamente e ideologicamente disorientato.

Nella prospettiva mitica del “buon selvaggio curdo”, il ‘Citoyen corrotto’ è una categoria che potrebbe essere estesa ad ogni tipologia di abitante mediorientale, dall’anti-imperialista iraniano ligio alla Repubblica Islamica al patriota siriano di orientamento nazional-popolare, dal palestinese sunnita radicalizzato allo sceicco saudita, dal cosiddetto “islamofascista” turco – che surrettiziamente si sospetta celarsi dietro ad ogni musulmano in quanto tale – al cristiano maronita libanese.

Lo status del Citoyen che abita l’attuale regione geopolitica del Levante, insomma, ne risulta svalutato moralmente per la mancata adesione dello stesso Citoyen ad una prospettiva internazionalista occidentale; denigrato politicamente per la sua fedeltà a Paesi che sono percepiti, secondo standard normativi estranei alla regione, come inferiori ai sistemi occidentali di governo; l’esito è che i confini dei Paesi di questo Citoyen, dall’Iran alla Siria, vengano disconosciuti, dopo decenni di sforzi di politica anti-coloniale, in modo non dissimile al cosiddetto “Stato Islamico del Levante”, che autoproclamò l’abolizione delle frontiere tra Siria ed Iraq.

Ad essere sottesa, dunque, ancora una volta è la presunzione paternalistica occidentale di ridisegnare nuovamente i confini mediorientali, servendosi proprio, più o meno inavvertitamente, della stessa “questione curda” quale leva per tale trasformazione esogena degli equilibri etnici e statali esistenti. Anche quel pubblico occidentale che indulgeva nella retorica di “primavere arabe” per trasfigurare alcune contro-rivoluzioni islamiste in atto, a distanza di pochi anni può finalmente redimersi nel rinnovato mito del ‘buon selvaggio’.

L’appello alla “questione curda”, come rilevava l’autore di un articolo su filo-curdismo e sinistra italiana, è diventata anche una leva per la propaganda interna alla micro-partitismo extraparlamentare, servendosi cioè di un idilliaco confederalismo democratico capace di fornire proprio dal luogo utopico del “Kurdistan” un “modello politico post-moderno, che non ha alcuna ambizione di presa del potere, che non mira alla sovranità statale, che rifiuta pensieri forti e sistemi di pensiero strutturati, che eleva tematiche importanti ma parziali a orizzonte di valore (dall’ecologismo al femminismo)”. (1)

Quando uno stimato orientalista italiano osservava, in un articolo dell’anno scorso, che storicamente i curdi “si sono sovente prestati a svolgere un ruolo di agenti per conto terzi nei vari conflitti che hanno insanguinato questa parte del mondo”, non esagerava affatto. (2) Al mito espansionistico del gruppo terroristico del Levante, è stato di non di rado contrapposto quello di un virtuoso autonomismo curdo, senonché, alla luce della storia del collaborazionismo curdo con le autorità ottomane e turche nella repressione armena, tale opposizione appare dileguare sul piano storico.

Commentando il trattamento riservato dai feudatari curdi alla popolazione contadina armena sotto l’Impero ottomano, lo storico Guenter Lewy nella sua monografia sul genocidio armeno osservava: “Quando, però, l’Impero ottomano cominciò a vacillare e il suo apparato amministrativo diventò sempre più corrotto, la situazione dei contadini armeni si fece difficile, perché non erano più in grado di pagare tasse esorbitanti ai precettori ottomani, né i tributi ai signori curdi. Quando fu sospeso il pagamento dei tributi, le tribù curde, che avevano sempre mostrato una certa ostilità, sferrarono violenti attacchi contro i villaggi armeni sostanzialmente indifesi, uccidendone abitanti, rapendo donne e ragazze, razziando il bestiame. I funzionari ottomani, particolarmente venali, per mancanza di volontà o per incapacità, lasciarono correre.” (3)

A conclusione della guerra russo-turca del 1877-78, il trattato di Berlino avrebbe ridimensionato le acquisizioni russe seguite dalla vittoria conseguita sulla Sublime Porta, riducendone alcuni vantaggi che vennero percepiti come pericolosi per l’equilibrio delle potenze europee. Notevoli furono conseguentemente anche le perdite territoriali dell’Impero Ottomano, con precise disposizioni rivolte ai rapporti tra curdi e armeni: “Nel 1879, poco tempo dopo la conclusione del Trattato di Berlino, il cui articolo 61 stabiliva che il governo dovesse porre rimedio ai soprusi contro gli Armeni commessi dai curdi, il sultano aveva mandato nella città di Van Sami Pasha, incaricandolo d’incoraggiare e d’intensificare questi soprusi, e spacciandosi contemporaneamente per difensore delle aspirazioni curde”. (4)

Tornando a dare la parola a Lewy, la situazione di colonialismo curdo interno all’Impero ottomano ai danni degli abitanti armeni non fu nemmeno sopita a seguito del colpo di Stato dei Giovani Turchi: “i curdi avevano sempre considerato gli armeni una specie di preda naturale; le deportazioni degli armeni offrirono loro l’opportunità di far bottino e rapire donne […]”, e con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, prosegue Lewy, “si disse che gli armeni avevano fatto causa comune coi russi.

Se i curdi non aiutavano i turchi a fronteggiare i russi ei loro alleati armeni, correvano il pericolo, in caso di vittoria dei russi, di essere oggetto di una tremenda vendetta per le angherie inflitte in passato agli armeni. Insomma, ai curdi fu rinnovata, per così dire, la licenza di depredare gli armeni”. (5) Come si presenta, oggi, la questione curda agli occhi dell’eterogenea opinione pubblica dei “Citoyens” storicamente esistenti all’interno di quei “artificiosi confini”, pur tuttavia riconosciuti dalle Nazioni Unite? “L’indipendenza curda sarebbe un pugnale avvelenato contro gli Arabi”, riferiva nel 2015 Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). (6)

In modo affatto non dissimile, l’anno scorso il ministro degli Affari esteri iraniano, Dr. Ali-Akbar Velayati, denunciava i tentativi diplomatici statunitensi di appoggio ai micro-nazionalismi: “Lo scenario USA volto a creare un Kurdistan indipendente darà vita ad una seconda Israele”. (7) Il segretario del Partito comunista siriano Ammar Baghdash lo scorso giugno commentava: “dal punto di vista politico, l’idea della federazione curda minaccia l’unità e la sovranità della Siria e nega la sua realtà sociale così composita e diversificata: nella stessa area del Nord-Est, non ci sono solo curdi, ma arabi e persone di altre nazionalità”. (8)

Queste manifestazioni di preoccupazione politiche non sono affatto espressione di fobie personali, ma riflesso di una conoscenza storica dei piani di balcanizzazione della regione nel lungo periodo. Secondo il Piano Yinon israeliano (1982) la soluzione strategica ottimale per il Medio Oriente era rappresentata dalla frammentazione dei Paesi arabi, a cominciare da un’Iraq diviso in tre Stati, sciita, sunnita e curdo.

Ancora nel 2006, nel memorandum “Blood Borders” redatto dall’ex colonnello USA Ralph Peters si leggeva che “between the Balkan Mountains and the Himalayas” manca uno Stato libero del Kurdistan, e che pertanto gli USA dovrebbero impegnarsi a riconoscere e promuoverne l’indipendenza; (9) non desta certamente sorpresa, dunque, la decisione di Benjamin Netanyahu occorsa nel giugno 2014 di annunciare ufficialmente il sostegno all’indipendenza curda auspicando “un asse regionale di cooperazione” con le sue unità secessioniste. (10)

Il solo supporter del progetto separatista curdo in Medio Oriente, nella storia recente della regione, è Israele. Se i rapporti tra PYD e altre sigle separatiste con l’Arabia Saudita si dovessero consolidare avremmo conferma della tacita alleanza israelo-saudita, che ebbe già origine nell’antisovietismo della Prima Guerra Fredda, suggellata dall’OMEGA memorandum di Eisenhower.

Se la ‘querelle’ del micronazionalismo curdo dovesse acquisire un peso specifico maggiore nei prossimi tempi, vale a dire un’importanza maggiore rispetto a quella attribuitagli dal filo-curdismo occidentale, probabilmente potremmo assistere alla prosecuzione della “primavera araba” islamista nella forma di una contigua “primavera curda”. Entrambe a carattere transnazionale (“Kurdistan” o Dar al-Islam che sia), eterodirette, e strumentali a piani neo-coloniali. Vi è perciò ragione di credere, come ha osservato recentemente un analista, che un “soggetto politico curdo” possa prendere forma nelle attuali condizioni soltanto come “delegato geopolitico unipolarista designato per portare a termine la partizione della Repubblica Araba a conclusione della guerra”.(11)

(1) I curdi e la sinistra italiana, “MilitantBlog”, 12 settembre 2016
(2) E. Galoppini, I confini artificiali del mondo arabo, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 2/2016, p. 66.
(3) G. Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, Torino 2006, pp. 6-7.
(4) V. N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, Guerini e Associati, Milano 2003, p. 163.
(5) G. Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, Torino 2006, p. 290.
(6) R. Avraham, PLO opposes Kurdish self-determination, “Jerusalem Online”, 10 settembre 2015
(7) Notizia ripresa in: Iran: Kurdistan will be another Israel in the region, “Remaht’s World” blog, 21 luglio 2016
(8) Il segretario del Partito comunista siriano: “La Siria deve rimanere una roccaforte. Sosteneteci”, “L’Antidiplomatico, 24 giugno 2016
(9) R. Peters, Blood borders. How a better Middle East would look, “Armed Forces Journal”, 1 giugno 2016
(10) Israel’s prime minister backs Kurdish independence, “The Guardian”, 29 giugno 2014
(11) A. Korybko, Syrian-Kurdish clashes: new conflict or “new Détente”?, “The Duran”, 19 giugno 2017

(di Davide Ragnolini)