La Repubblica Sociale tra Stato e Partito

I seicento giorni che hanno caratterizzato l’ultimo atto di vita del fascismo italiano vengono ripercorsi da Roberto D’Angeli nel suo “Storia del partito fascista repubblicano”, edito da Castelvecchi e arricchito da una prefazione del Professor Giuseppe Parlato.

Nelle 262 pagine del testo, a cui vanno aggiunte le tantissime fonti, la bibliografia e l’indice dei nomi, D’Angeli ripercorre il rapporto tra Benito Mussolini e il Pfr. Dopo la liberazione ad opera dei tedeschi dalla detenzione sul Gran Sasso, Mussolini pensa al partito come lo strumento più adatto ad affrontare l’incertezza seguita alla caduta del 25 luglio e al successivo armistizio siglato da Badoglio con gli anglo-americani l’8 settembre.

Schiacciato durante il regime, il partito riprese vita, però, già prima del ritorno sulla scena pubblica di Mussolini. Mentre tantissimi fra coloro che avevano aderito al partito per mera convenienza si nascosero o si resero irreperibili per non farsi coinvolgere in quella che sembrava una sconfitta annunciata furono i fascisti della prima ora, gli squadristi degli anni venti e i ragazzi cresciuti in un’Italia già fascistizzata a riorganizzare le sedi e l’apparato del partito sul territorio.

Anima del partito e del fascismo primigenio fu Alessandro Pavolini, già ministro della Cultura Popolare, e fautore della trasformazione del Pfr in una milizia armata tramite la creazione delle Brigate Nere. Pavolini, dopo aver superato indenne un rimpasto voluto da Mussolini che avrebbe voluto sostituirlo alla guida del partito con il militare pluridecorato Fulvio Balisti, rappresentò in pieno l’ala intransigente della Repubblica di Salò tanto da bloccare ogni tentativo di far pervenire la domanda di grazia degli artefici della caduta del 25 luglio, tra i quali Galeazzo Ciano, allo stesso Mussolini.

Ampio spazio viene dato al primo congresso del partito in cui venne stilato il Manifesto di Verona. Quest’ultimo costituito da diciotto punti ha rappresentato un testamento politico del fascismo ed è caratterizzato da un ritorno alle politiche sociali che il fascismo propugnava fin dalla sua fondazione a San Sepolcro. Ne divenne la massima espressione la legge sulla socializzazione delle imprese, prontamente cancellata, a guerra finita, dal Comitato di Liberazione Nazionale.

Ricchi di documenti risultano anche i due capitoli inerenti la posizione del partito verso gli ebrei e la propaganda antisemita, di certo più forte rispetto a quella seguita alle leggi razziali del 1938. Su questo aspetto risalta la forza di quel fascismo intransigente che, in piena fase bellica, individuò nella massoneria e negli interessi economici del capitale il nemico da abbattere per imprimere una nuova svolta rivoluzionaria all’intero movimento.

Va detto, in ogni caso, che l’idea dei fascismi mediterranei resterà sempre meno permeata dall’odio razziale di stampo nazional-socialista. L’ultimo capitolo e le conclusioni dell’opera si interessano alle cosiddette “Termopili del fascismo” individuate nel ridotto della Valtellina che, però, tra ritardi e sovrapposizioni di incarichi non prenderà mai vita.

(di Luca Lezzi)