Falcone, 25 anni fa moriva un uomo di Stato

Era il 23 Maggio 1992 quando una carica di tritolo di oltre 500kg faceva saltare in aria un cavalcavia dell’autostrada A29, nei pressi dello svincolo per Capaci, a pochi chilometri da Palermo. Nella terribile deflagrazione morirono sul colpo Giovanni Falcone, membro di spicco del pool antimafia, la moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato, e tre uomini della scorta; altre 23 persone rimasero ferite.


Per capire cosa abbia spinto Cosa Nostra a compiere un attentato così crudele e plateale è necessario capire chi era Giovanni Falcone: nato a Palermo il 18 Maggio 1939, cresce nel capoluogo siciliano in una famiglia benestante.

Dopo gli studi universitari diventa magistrato a soli 25 anni. Dopo un anno, nel 1965, diventa pretore presso il tribunale di Lentini. Dopo l’omicidio del Giudice Terranova nel 1979 accetta l’offerta di Rocco Chinnici, pioniere della lotta alla mafia, passando al ruolo di giudice istruttore. Da lì inizia la collaborazione con Paolo Borsellino, storico magistrato italiano, collega di Falcone morto anch’esso in un attentato dinamitardo.

Nel 1980 prende parte all’inchiesta contro Rosario Spatola, costruttore edile palermitano, accusato di riciclaggio di denaro frutto del traffico di eroina. Ed in questa indagine comprese che per indagare sulla mafia fosse necessario basarsi su indagini bancarie e finanziarie, ricostruire i percorsi del denaro per riuscire ad arrivare ai vertici delle organizzazioni criminali.

Nel 1984, sempre sotto idea di Chinnici, prese parte al pool antimafia, che rivoluzionò le tecniche di indagine sulla criminalità organizzata: scopo del progetto era quello di restituire la Sicilia ai siciliani onesti. Il pool si occupò solo ed esclusivamente di processi alla mafia.


La svolta arrivò con l’arresto di Tommaso Buscetta, le cui confessioni si riveleranno fondamentali nella comprensione dei meccanismi di funzionamento di Cosa Nostra. La conferma che si stava lavorando nella direzione giusta arrivò in una triste maniera, ossia con gli omicidi di Giuseppe Montana e Ninni Casserà, entrambi membri di rilievo della squadra mobile di Palermo.

Le indagini continuarono: l’esito fu devastante per le cosche siciliane. Con il maxiprocesso di Palermo svoltosi tra il 1986 e il 1992, vennero infatti inflitte 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare.

Nel frattempo però il pool antimafia venne scioccamente, e forse maliziosamente, sciolto. Si tornò dunque alle vecchie tecniche di indagine. Il magistrato non fu tenero all’epoca: “Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato.”

Il 21 Giugno 1989 Falcone subì un primo attentato, ma senza conseguenze. Il magistrato dichiarò che a volere la sua morte era qualcuno che temeva l’inchiesta in corso sul riciclaggio di denaro, e parlando di “menti raffinatissime” teorizzò una collusione tra mafia e servizi segreti deviati.

Il secondo attentato, quello che gli costerà la vita, venne deciso in un incontro tra i vertici di Cosa Nostra a cavallo tra il settembre e il dicembre del 1991. La modalità fu decisa da Totò Riina, leader dell’ala ‘militare’ dei corleonesi: il ‘capo dei capi’ deliberò che l’omicidio fosse eseguito proprio in Sicilia, con un attacco dinamitardo che avrebbe dovuto rappresentare un monito per tutti i gli altri giudici. E così fu.

Dopo pochi mesi arriva la fine anche per Paolo Borsellino. Attraverso questi attacchi la mafia sferrava allo Stato il più grande affronto che esso avesse mai ricevuto dai tempi della seconda guerra mondiale.

Il più grande merito di Falcone fu quello di capire che la nuova mafia dei corleonesi aveva perso ogni logica di onore e “difesa del territorio”, che in qualche maniera la aveva caratterizzata nei primi anni del dopoguerra. I nuovi mafiosi, in particolare proprio i corleonesi, totalmente asserviti alle logiche di guadagno, erano effettivamente veri e propri imprenditori, e proprio seguendo la scia dei soldi potevano essere stanati.

Il pentito Giovanni Brusca nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone afferma: “Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato… Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982.”

Purtroppo come spesso accade i grandi uomini vengono capiti solo dopo la loro morte. Giovanni Falcone, che era sicuramente un grande uomo, forse anche per gli interessi che le sue inchieste andavano a toccare, non fu sufficientemente supportato e capito durante le sue indagini.

Il magistrato era arrivato alla seguente conclusione: “La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.

Mantenne però la convinzione che la mafia fosse un cancro curabile, e che arrendersi al fatalismo rappresentasse la più grande vittoria per la criminalità organizzata. La sua frase più celebre è forse questa: “La mafia è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà quindi una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave, che si può vincere, non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.

Giovanni Falcone è stato l’esempio di come un uomo, fedelmente al servizio dello Stato, possa anteporre agli interessi propri, quelli superiori della Nazione. Il suo collega Borsellino sintetizzava quest’anima con parole inequivocabili: “È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola“.

(di Pietro Ciapponi)