Milano e Roma: marce per la morte e per la vita a confronto

Nelle due più grandi città italiane si sono svolte ieri due manifestazioni la cui contrapposizione temporale è apparsa significativa anche sul piano ideale ed ideologico, consentendoci, un po’ provocatoriamente, di avanzare delle riflessioni sui tempi che corrono.

Mentre a Milano infatti, gli italiani “belli” marciano accanto al sindaco Sala e altri vip del globalismo a favore di un’apertura totale delle frontiere, implicante la rinuncia al concetto di identità e all’esistenza dei confini, all’indomani di un episodio – l’accoltellamento di due militari e di un poliziotto – che avrebbe dovuto portare ad altro tipo di considerazione sull’immigrazione e prima ancora sulla sicurezza, a Roma gli italiani “brutti” hanno marciato per chiedere una maggiore tutela della vita, costruendo a sua protezione ragionamenti di buon senso.

L’informazione perbenista di certo racconterà meglio la prima Italia, quella ‘senza muri’, metafora singolare in una penisola di mare e montagne. Un’Italia per molti versi nichilista, sconclusionatamente “aperturista”, che i soliti noti della carta stampata che pesa “decorano” di medaglie al valore umanitario, inni sentimentalistici a base di superficialità e buonismo, senza nemmeno per sogno azzardare una riflessione lucida su sicurezza e futuro.

Poco e male, di contro, si parlerà di quell’altra Italia che sfila per dire qualcosa che oggi sembra non potersi dire più, almeno non senza incappare in accuse di cattobigottismo e critiche feroci: il grembo materno non dovrebbe mai diventare il posto meno sicuro per un bambino.

Caso vuole poi che ad aprire il corteo milanese degli ‘accoglienti’ ci sia stata nientepopodimeno la liberista, liberale, libertaria per eccellenza, la signora Emma Bonino, abortista combattente ed iper-liberista praticante, tra le altre cose fondatrice da giovanissima del Centro di informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto.

Accoglienza. Informazione. Sterilizzazione. Aborto. La stessa, qualche tempo fa, ebbe modo di spiegare che, poiché gli italiani non fanno più figli, una bella ventata migratoria sia il balsamo per curare la ferita demografica di un’Italia appunto vecchia e senza bambini. Gli immigrati, oltre ai lavori, fanno anche i figli che gli italiani non vogliono più fare.

A Roma il corteo lo ha aperto invece Gianna Jessen, nata da aborto, cioè sopravvissuta al cosiddetto aborto salino tardivo, attiva nei movimenti che si oppongono all’aborto, gira il mondo per raccontare che di aborto talvolta si possa addirittura nascere.

Qualche giorno fa le è stato vietato di parlare all’Università di Roma 3, giusto in applicazione di valori di tolleranza e libertà di pensiero suggellati in tutte le costituzioni liberali e nella nostra. Questo è comprensibile e lo è perché Gianna Jessen smonta ogni certezza, destruttura ogni fortunato sistema comunicativo pro aborto. “Se l’aborto riguarda i diritti della donna, come la mettiamo con i miei?”.

Diciamola tutta, se la legge 194 è pro choice, pro choice in Italia non sono i fatti, nel senso che la scelta garantita dalla normativa – aborto o maternità – nei fatti spesso non esiste, non è placidamente percorribile, non sussistendo condizioni economiche e sociali favorevoli e soprattutto tensioni culturali favorevoli, tensioni che, cambiando la scala delle priorità, facciano del Belpaese un posto a misura di madre, di padre e di bambino. L’assegno per la maternità è tutto ciò che i governi italiani sembrano riuscire a partorire a sostegno della genitorialità.

Ma non perdiamoci. A Milano sfilano per abbattere i muri. Quali? L’Italia non ha muri: lo dicono i numeri degli sbarchi, le palate di euro spesi in emergenza migranti, i fatti di cronaca e la stessa morbosa esigenza di marciare per indurre al desiderio di qualcosa che ci è già imposto. Sensibilizzare a desiderare ciò che ci viene incontro senza che lo abbiamo scelto. Il muro, infatti, non esiste, se non nella dimensione di fantasma creato ad hoc per nutrire l’epica del migrante.

A Roma si sfila per affermare l’ovvio, che la vita chiama la vita, che, se il bambino è tale dal 91° giorno, la madre è madre da subito, ma ciò non si può dire. Ammettere cose ovvie di questo tipo significherebbe ledere l’autodeterminazione della donna e buttare nell’immondezzaio anni ed anni di gloriose battaglie femministe, che hanno appunto trasformato la maternità in un muro di prigionia da abbattere, in una collettività per di più formata o meglio plasmata ad essere “no muri”.

La Marcia per la vita, in questo contesto è una nota assolutamente stonata, anacronistica e involutiva circa i “nuovi” diritti. Nell’immaginario iperideologizzato è ora troppo cattolica, ora troppo estremista. Per alcuni mette insieme quelli troppo ‘giudicanti’ che non sanno “le difficoltà della vita”, per altri è sinteticamente inconcepibile. È inconcepibile, parafrasando Chesterton, dover sguainare le spade per affermare che le foglie sono verdi in estate.

Chi vogliamo accogliere quando a tanti non è consentito, a causa del trionfo dei disvalori, accogliere i propri figli? Sarebbe interessante ascoltare la risposta di quelli “belli” di Milano.

(di Mariangela Cirrincione)